THE MANY FACES OF

STEFANIA ROCCA

di Federico Ledda

location Pineider store, Milano

fashion Mohamed Hammami

edit Simona Ladisa

MUA’s assistant Claudia Cozzuto

MUA Emanuela Caricato

pictures by Alessandro Levati

STEFANIA ROCCA

di Federico Ledda

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MUA Emanuela Caricato

MUA’s assistant Claudia Cozzuto

edit by Simona Ladisa

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location Pineider store, Milano


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Si può cambiare pelle come un’iguana? Per un attore è sicuramente più facile, ma diciamocelo, è un dono che veramente in pochi hanno. Una di questi è senza ombra di dubbio Stefania Rocca, una che di pelli ne ha cambiate tantissime. L’abbiamo vista in ogni sfaccettatura: dal farci ridere, al commuoverci e al farci pensare.
Ciò che la rende così camaleontica è l’avere sempre fame di novità, voglia di allargare i confini e di andare sempre controcorrente. È proprio da qui che, infatti, arriva il titolo della nostra coverstory in omaggio all’attrice. Abbiamo cercato di raccontarla attraverso alcuni dei suoi volti: c’è quello punk, quello divertente, quello elegante e, infine, quello più tagliente. Da Viol@, passando per Vita da Carlo e fino a La Madre di Eva a teatro, una carriera che, costantemente in sviluppo, è sempre stata attorniata di successi che hanno fatto sì che la sua arte fosse comunicata in modo necessario e sofisticato. Ultimamente, è impegnata con La Madre di Eva, opera teatrale da lei scritta e diretta, tratta dal libro di Silvia Ferrari, che le ha permesso di ottenere anche un Premio Abbraccio, conferitole dall’Agedo, associazione che si occupa dei genitori di figli LGBTQIA+. Stefania è un vulcano in continua evoluzione, capace di passare da storie di vita pazzesche, all’amore per la musica elettronica (che spesso l’ha portata in giro per i festival migliori del mondo) a quella per la recitazione, il tutto rimanendo unica nel suo modo di essere e nel suo approccio al mondo dell’arte.

Partiamo dalla fine, sei appena stata a teatro con uno spettacolo importante, tratto da un libro. Raccontami.

Nasce tutto da un festival che curo a Otranto, OFF, dove cerco sempre di mescolare le arti: cinema, moda, musica, arte contemporanea. Nel 2019 avevo scelto il tema della Diversity & Inclusion e, durante la ricerca, mi sono imbattuta in La madre di Eva: un libro duro, che mi ha fatto riflettere. E la domanda che mi sono posta è, io ho gli strumenti per comprendere e accompagnare mio figlio in questo percorso? Ho iniziato a raccogliere testimonianze, ho coinvolto associazioni, genitori, figli. Da lì è nato lo spettacolo: un confronto generazionale, un modo per parlare di diversità come possibilità di armonia. Ora sto lavorando alla sceneggiatura del film, approvata dalla Film Commission. Non è un tema facile, a teatro ho visto che ancora spaventa.

Infatti lo spettacolo affronta un tema delicato senza giudicare, ma offrendo strumenti. Cosa volevi trasmettere davvero al pubblico?

Volevo raccontare un rapporto genitori-figli in un momento storico in cui i ruoli familiari stanno cambiando radicalmente. Niente giudizi, solo strumenti per avvicinarsi a una realtà spesso piena di tabù e paure. Lo spettacolo non vuole cambiare l’opinione di nessuno, ma aprire uno spazio di ascolto. E alla fine, il messaggio è che tutti – genitori e figli – stanno attraversando una loro forma di transizione dentro una società che evolve velocemente e che oggi più che mai ha bisogno di riflettere sul valore del rispetto dell’altro, una società in cui le diversità vengono assunte come un valore aggiunto.

Recentemente hai anche recitato nella nuova stagione di Vita da Carlo, dove il tuo personaggio diventa quasi una stalker. Come hai approcciato questo ruolo così fuori dalle righe e com’è nato il tuo rapporto con Carlo Verdone, con cui avevi già lavorato in precedenza?

Il rapporto con Carlo è nato in modo naturale, con un’intesa immediata. Dopo il film L’amore eterno finché dura, mi ha chiamata per Vita da Carlo e mi ha fatto fare un personaggio molto diverso dal solito. Carlo è un maestro nell’ironia e nella commedia, mi ha spinta a esplorare ruoli che vanno oltre l’apparenza. Abbiamo creato un gioco divertente, anche con la figura della stalker, che rappresenta una sorta di comportamento tipico della società odierna, dove le persone non mollano facilmente.

In Vita da Carlo, il tema dello stalking viene affrontato con grande ironia. Come siete riusciti a trattare un argomento così serio, ma con un tono così leggero? Qual è la tua opinione su come Carlo Verdone riesce a entrare in empatia con le persone, sia sul set che nella vita?

Abbiamo trattato il tema dello stalking in modo ironico, ma con un sottotesto profondo. Non è scontato, soprattutto in una serie leggera, riuscire a trasmettere un messaggio così importante, accettando anche decisioni dolorose. Carlo ha una capacità unica di entrare in empatia con le persone, sia sul set che nella vita, ed è per questo che non lo vedi mai come un attore, ma come un membro di famiglia. La sua autenticità e sincerità sono ciò che lo rende così speciale e ti permette di creare un rapporto naturale ed immediato.

In Italia, il mondo del teatro e del cinema sono ancora spesso separati, mentre in altri Paesi, come negli Stati Uniti o in Inghilterra, sembrano essere più connessi. Tu che hai lavorato in entrambi i mondi, come spiegheresti questa separazione e come la vivi personalmente?

In Italia, secondo me, questa separazione è alimentata dalla convinzione che un attore di cinema non può essere anche un attore di teatro e viceversa. Questo nasce dal fatto che le scuole insegnano approcci diversi: il teatro richiede un’energia diversa e una voce più versatile, mentre il cinema è più intimo e naturale. Personalmente però, trovo che i due linguaggi possano essere complementari. Ho sempre cercato di scardinare questi confini e sperimentare in entrambi i mondi. Negli anni, le cose sono cambiate e ora, con registi come Mario Martone, vedo più apertura. Credo che la chiave di volta stia nell’approccio: un attore è qualcuno che comunica, indipendentemente dal mezzo, e bisogna sfruttare tutte le possibilità che entrambi i mondi offrono.

Ricordi il momento in cui hai iniziato a fare Tutti pazzi per amore? Cosa ti ha convinta a partecipare a una serie TV, considerando che venivi da esperienze come il cinema e il teatro?

All’inizio ero scettica. Dopo aver fatto un musical con Kenneth Branagh, però, ho pensato che avrei potuto aggiungere qualcosa di nuovo alla serie, anche cantando, visto che so farlo. Mi ha convinto l’approccio innovativo della serie, che trattava temi moderni come l’omosessualità, l’aborto e il divorzio, argomenti caldi e nuovi per una fiction italiana. È stato un lavoro davvero divertente, che mi ha permesso di esplorare un linguaggio diverso. Ho continuato poi a lavorare con Riccardo Milani su La Grande Famiglia, un’altra serie innovativa.

Nel corso della tua carriera hai anche avuto dei momenti memorabili nel cinema internazionale, come non citare I talenti di Mr. Ripley?

I talenti di Mr. Ripley è stato un film che ha dato molto a tutti noi, sia come attori italiani che come produzione. Il regista Anthony Minghella, è stato incredibile… Mi ricordo il nostro primo incontro, quando lui mi disse che sembravo più tedesca che italiana, mentre io gli risposi impulsivamente dimostrando il mio atteggiamento italiano! È stato un incontro che mi ha fatto capire la sua capacità di vedere al di là dell’apparenza. Poi, in Heaven, mi ha chiamato per fare la sorella di Cate Blanchett, un bel momento di chiusura di un cerchio.

Parlando della tua formazione, cosa ti porti dietro dall’Actor’s Studio e dal Centro Sperimentale?

Ho imparato che questo mestiere non si fa da soli: devi essere inclusivo, saper ascoltare e lavorare con gli altri. La curiosità è fondamentale, così come la capacità di non essere permalosi o presuntuosi. È importante mantenere la tua linea personale, indipendentemente dai giudizi esterni che tanto ci saranno sempre.

Hai parlato spesso del tuo legame con la musica. In che modo questa passione entra nel tuo lavoro da attrice?

 

Allora, siccome io sono sempre stata molto legata alla musica, mi sono accorta che ogni volta che arrivavo su un set, o in una situazione particolare, mi venivano in mente delle canzoni completamente a caso, brani che magari non sentivo da anni e che non avevano nulla a che fare con quel momento specifico. Allora mi chiedevo: ma perché proprio questa? Poi ho capito che quelle canzoni arrivavano perché stavo percependo un certo tipo di energia, di ritmo, di attitudine. Così a quel punto ho iniziato a usare la musica come strumento di lavoro, ogni personaggio che interpreto lo associavo a una canzone, mi aiutava a capire meglio il personaggio e a farlo mio.

 

E per questo momento qui, che canzone metteresti?

Mah, adesso sono un po’ influenzata da quello che sto sentendo qui in questo bar dove siamo seduti, quindi ti direi Busta Rhymes.

 

 

 

 

 

 


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