BIG IN 2020:

LOUS AND THE YAKUZA

di Federico Ledda

pictures by Alessandro Levati

BIG IN 2020: LOUS

AND THE YAKUZA

di Federico Ledda

pictures by Alessandro Levati

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Lous And The Yakuza: segnatevi questo nome perché se non lo conoscete ancora, nel corso del prossimo anno lo sentirete sempre più spesso. In realtà è praticamente impossibile accendere la radio senza imbattersi in ‘’Dilemme’’ pezzo dal testo disarmante ed estremamente riflessivo.
Lous, Congolese cresciuta tra Ruanda e Belgio, è un’immigrata di colore che sta facendo del suo talento un’arma di informazione contro l’ignoranza. L’artista è in realtà sulla piazza da diversi anni e ha all’attivo oltre 50 pezzi. Ha deciso però di ripartire da zero, eliminando dal web tutto quello che c’è stato prima ripresentandosi con un nuovo sound, per cui il merito va anche a El Guincho, produttore che si sta affermando sempre di più grazie alla collaborazione con Rosalía, l’artista catalana che in meno di un anno è diventata di rilevanza mondiale. E’ quello che succederà a Lous? Noi un po’ ci scommettiamo: il talento c’è ed è accompagnato da una forte immagine e un sound più che accattivante. La sua storia è importante quanto travagliata, per questo abbiamo quindi deciso di raccontarla per filo e per segno.

Mi piacerebbe iniziare dall’inizio di tutto: dove nasci, chi sei? Raccontami della tua vita.

Vengo dal Congo, dove sono nata nel 1996. Diciamo che non ho avuto un’infanzia molto facile, facevo spesso avanti e indietro tra Europa e Africa. La prima volta che mi sono trovata in Europa, più precisamente in Belgio era il 2000 e ci sono arrivata come un’immigrata per fuggire dalla guerra che era scoppiata nel mio paese e per ricongiungermi con mia madre, scappata due anni prima.

Com’è stato ritrovarla?

Onestamente? Orribile. Avevo solo quattro anni e l’ultima volta che l’ho vista ne avevo due. Era scappata dalla guerra perché iniziava a essere parecchio violenta per la gente del Ruanda quindi ha dovuto fare i bagagli più che in fretta. Immagina quindi avere passato alcuni degli anni più importanti della tua crescita con tuo padre, per poi ritrovarti, quasi all’improvviso, con una persona che ai tuoi occhi era praticamente estranea. In più essendo in fuga da una guerra.

E il Belgio come ti è sembrato?

Strano, ero molto confusa. Ricordo che c’era un freddo pungente a cui, venendo dall’Africa, non ero abituata. In più, la casa che avevamo trovato era nel ghetto di Bruxelles, mentre invece in Congo la mia famiglia viveva in una grande casa in centro.

E’ stato difficile?

Ero molto piccola, quindi mi sono abituata in fretta e poi ho iniziato ad amarlo! Abbiamo vissuto prima a Saint Josse e poi ad Anderlecht, che è il ghetto più estremo di tutta la città, (ride, ndr.). Poi, quando avevo nove anni, siamo tornati in Ruanda, dove nel frattempo era terminata la guerra.

Che cosa hai trovato al tuo arrivo?

Un paese stanco e completamente traumatizzato dal genocidio della guerra durata dieci anni. La situazione era veramente assurda. C’erano macerie ovunque, i palazzi rovinati, la gente, estremamente povera che dormiva per strada e spesso ci moriva… Grazie a Dio però questo è stato il passato ed è con estrema fierezza che dico che successivamente c’è stata una crescita esponenziale del paese e adesso il Ruanda è uno dei posti più belli, interessanti e sicuri di tutto il mondo. Infatti ci ho passato sei anni stupendi. L’unico problema che sentivo era che non c’era nessun tipo di accesso all’arte. Non esisteva proprio. Non c’erano musei, non c’era niente. Ricordo che per ogni festività, tipo compleanno, Pasqua, Natale etc. chiedevo della carta: agende, block notes e qualsiasi cosa per poter scrivere. Ho sempre avuto questa grande necessità, anno dopo anno si è fatta sempre più importante. Così come scoprire l’arte è diventata sempre di più una ragione di vita. Infatti, ho praticamente obbligato i miei genitori a farmi ritornare in Belgio e a iscrivermi a scuola. Così durante la settimana studiavo e nel weekend rimanevo nel mio piccolo appartamento e stavo tutto il fine settimana ad approfondire la mia cultura.

Che tipo eri a scuola?

Ho sempre avuto bellissimi voti ed ero un po’ l’anima della festa diciamo, però allo stesso tempo ero anche la ‘’strana’’ che amava leggere, fanatica della musica e dell’arte, con la passione per i manga e gli anime.

Quando è stata la prima volta che hai realizzato di essere nera?

Ero a conoscenza ci fosse una black community, ma vivevo in Africa, quindi essere neri era la cosa più normale del mondo. Quando a quindici anni stavo andando in Belgio per iniziare la scuola, mia madre mi ha accompagnata in aeroporto e mi ha detto: ‘’non dimenticarti che sei una donna e che sei nera’’ e io ero tipo ‘’sì, e quindi?’’. Poi sono arrivata in Belgio, ma questa volta non a Bruxelles, ma a Namur, una cittadina che mai ha avuto a che fare con immigrati di alcun genere. Là ho capito che cosa intendesse mia mamma. Ad esempio, a scuola ero l’unica di colore. Immaginati quanti occhi addosso e quante domande assurde mi facevano. Questo mi ha automaticamente portato a maturare prima, altrimenti sarei diventata pazza. L’ho sempre presa in maniera serena e pacifica, erano ignoranti, non razzisti. Poi come ti dicevo, a diciotto anni mi sono diplomata e ho iniziato a fare la cantante, cosa che i miei genitori non hanno approvato.

Perché?

Sono entrambi dottori e vengono da due villaggi. Tutto quello che hanno guadagnato, l’istruzione che hanno avuto, è stata per merito loro. Quindi quando ho rifiutato l’opportunità di andare all’università sono rimasti senza parole. Mi hanno dato dell’ingrata.

E tu cos’hai risposto?

Ho detto loro che non si trattava di essere ingrati, ma semplicemente che preferivo intraprendere un altro percorso. Il loro problema era che volevano risultati veloci. Ad esempio: ‘’ok, hai rilasciato una canzone, adesso? Ti è cambiata la vita? Sei ricca?’’. Io ho provato a fargli capire che ci voleva tempo facendogli l’esempio di mio fratello che si era appena iscritto a ingegneria, dicendo: ‘’okay, ha fatto un giorno di università, è già ingegnere?’’, ma nonostante l’esempio fosse perfetto, hanno preferito non capire, trattarmi da pecora nera e tagliarmi fuori dalla famiglia, pensando che con un po’ di pressione psicologica potessi cambiare idea. Cosa che non ho pensato nemmeno per un secondo.

E che cosa dicono adesso che i risultati iniziano a fruttare?

Sono cambiati molto. Hanno finalmente capito il mio percorso. Ci è voluto tanto tempo, infatti è da molto poco che abbiamo riallacciato i rapporti. Amo i miei genitori, penso che avessero semplicemente bisogno di tempo per capire, ecco.

Sei in giro da cinque anni e hai rilasciato oltre cinquanta tracce. Come mai su Spotify troviamo solo ‘’Dilemme’’?

Perché prima pubblicavo i miei pezzi su SoundCloud! Tuttavia, ho deciso di nascondere tutto il materiale precedente per dare massimo risalto a questo nuovo progetto. Non fraintendermi, amo tutti gli altri brani, ci sono affezionata, ma con ‘’Dilemme’’ è nata una nuova Lous. Tutti gli EP precedenti sono stati un allenamento. Adesso sto lavorando a un album, mi sono messa in gioco completamente.

Da dove è arrivata la scelta di cantare in francese e non più in inglese come hai fatto in precedenza?

Cesária Évora, James Blake, WizKid, Davido… Tutti questi artisti che ammiro scrivono nella loro lingua madre. Penso che significhi qualcosa, non credi? Quando parli nella tua lingua riesci a esprimere te stesso a pieno e credo che anche se parli bene altre lingue, non sarà mai come parlare nella tua.

Come hai conosciuto El Guincho?

L’ho conosciuto a Barcellona, una settimana dopo avergli scritto su Instagram. Stava per uscire “Malamente” e lui aveva pubblicato un piccolo teaser sul suo profilo. Sono totalmente impazzita, pensavo fosse un pezzo incredibile, mi sono detta: ‘’Cos’è questa roba? Mixa flamenco e hip-hop’’. Il mio obiettivo come artista è sempre stato quello di unire musica tradizionale con l’hip-hop. Allora mi sono detta che se lui riusciva a mettere insieme due generi così lontani e farli suonare così bene, poteva sicuramente aiutarmi con la mia visione. Così gli ho scritto. Mi ha risposto praticamente subito, dicendomi che l’idea lo faceva impazzire e che io e il mio team dovevamo immediatamente raggiungerlo a Barcellona. Così la settimana successiva abbiamo preso l’aereo e ci siamo andati. All’inizio doveva aiutarmi con due tracce, ma ci siamo fatti prendere la mano e ne è uscito un album intero!

Parte del tuo nome d’arte è ‘’Yakuza’’ (‘’squadra’’/ ‘’gruppo di persone’’, ndr.) ma chi è che fa parte del tuo gruppo?

Pablo, Ponko, Mems. Nell’album ci saranno solo tre produttori e sono loro. Alex Tumay si sta occupando del missaggio del disco e in precedenza ha lavorato con Young Thug, Lil Peep, Lil Uzi Vert… è davvero un onore avere l’opportunità di lavorarci. Chad Mastering, che ha fatto il master del disco. Quindi principalmente la mia Yakuza è la gente con cui lavoro e che mi supporta. Non si parla solo di producer e artisti, ma anche chi fa le PR, il make up, lo styling, i capelli, chi fa le unghie, chi gira i video, i ballerini del video ‘’Dilemme’’, la fantastica regista del video Wendy Morgan, i miei fratelli, chi lavora in Sony Music (la sua etichetta, ndr.). La Yakuza è la gente che mi circonda, la mia famiglia, chi comprende e aiuta la mia visione. Sai, sono un’artista emergente, non ci sono cifre astronomiche in gioco, chi prende parte al progetto è perché in primis ci crede quanto me. Ah, ti dico di più, il motivo per cui ho deciso di mettere “Yakuza” nel mio nome d’arte, è dare credito a tutte queste persone ogni volta che posso.

Come hai reagito quando ti hanno detto che ‘’Dilemme’’ era ai vertici delle classifiche italiane?

Innanzi tutto ero confusa, non me l’aspettavo per niente. Io non rispecchio ciò che funziona in Italia, quindi ho apprezzato che le radio abbiano scommesso su di me mettendola in rotazione. E’ un cambio di rotta. Anche voi, che siete qui, ad ascoltare la mia storia, a scriverla, a farmi foto. Siete a capo di un grande cambiamento culturale, state credendo in me. Una donna, immigrata e di colore.

Sai, facendo una somma, oltre Stromae, sei probabilmente l’unica artista francofona (e di colore) che si sta facendo notare nel mainstream italiano.

Questo è davvero incredibile. Non ne sapevo nulla, wow! Sai, un sacco di persone italiane mi scrivono ogni giorno su Instagram, e la maggior parte delle volte lo fanno nella vostra lingua! (ride, ndr.). A volte capisco, ma a volte proprio no. Così chiacchieriamo utilizzando Google Traslate, io in Francese e loro in Italiano. Stupendo.

Quindi ti piace spendere tempo rispondendo a chi ti segue?

Ma scherzi? Assolutamente sì, specialmente se sono italiane, giuro. Quando ho postato che mi trovavo nel vostro paese, un sacco di persone mi hanno scritto credendo fossi qui per un concerto. Incredibile, no? Comunque cerco di rispondere sempre a tutti, anche se ultimamente inizia a essere più difficile. Tipo, due mesi fa avevo cinquemila follower, era molto più facile occuparmene! Ora penso alle persone che ne hanno un milione… Ma come diavolo fanno?

Penso che lo scoprirai presto!

Inshallah.

Mi racconti del simbolo che ti disegni sulla fronte?

Significa avere entrambe le braccia alzate verso il cielo. Lo faccio per due motivi: il primo perché sono cattolica e tutte le mie domande vanno dirette al signore. Poi perché se ci pensi, è l’esatta reazione che l’essere umano fa quando riceve una notizia davvero bella, oppure quando ne riceve una triste, il che è assurdo se ci pensi. Quindi rappresenta perfettamente la mia persona: per me le cose sono sopra o sotto, sono nere o sono bianche. Sono una persona estremamente opposta.

Concludo l’intervista chiedendoti se secondo te il fatto che tu stia diventando nota stia aiutando la black culture ad emergere di più?

Spero di sì. Sicuramente sto rappresentando le artiste femminili di colore. Sono consapevole di non essere la prima, ma purtroppo non tutte le donne di colore stanno ricevendo le stesse opportunità. Quello che sto cercando di fare io non è aprire la porta, ma proprio spaccarla in modo da lasciarla costantemente aperta e permettere a tutte le altre di entrare. Il fatto che una ragazza immigrata del Congo, sia qui, in questa stanza a fare un’intervista riguardante la sua musica, è davvero indescrivibile per me. Questo però vuol dire che c’è spazio per tutte e che non sono da sola.

Esatto, penso ad esempio a Yuself (artista emergente francese, ndr.).

O MIO DIO, QUI CONOSCETE YUSELF?

Diciamo che non la conosciamo in molti, ma come te inizia a farsi strada!

E’ di un talento estremo, hai visto il suo ultimo video? Viviamo praticamente insieme, siamo vicine di casa, ma è sempre da me. La amo, è la stronzetta più simpatica di sempre!



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