
NICE TO MEET YOU
FLUENTE
di Federico Ledda
NICE TO MEET YOU
FLUENTE
di Federico Ledda
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Fluente non ha una casa sonora, né vuole averne una. Non è urban, non è indie, non è pop: è tutto questo e niente di preciso, si muove senza un punto fermo, scivola tra le canzoni con la stessa irrequietezza con cui ha lasciato la sua provincia. Un posto carico di storia, ma immobile, dove il silenzio e la noia hanno scavato dentro di lei fino a diventare necessità di espressione. Prima c’era la scrittura, ermetica e protetta, poi è arrivata Marco, il punto di svolta, il momento in cui il racconto si è fatto più diretto. Bologna è stata la sua deviazione naturale, il luogo in cui la musica ha preso forma, ma la nostalgia di quel vuoto iniziale non se n’è mai andata. E forse è proprio lì, tra il bisogno di partire e quello di tornare, che Fluente trova la sua voce.
Prima di arrivare a Fluente, chi è Sofia?
Sinceramente niente di così entusiasmante. Nasco in un paesino della Basilicata dimenticato dal mondo, ed è lì che cresco. Mi sono trasferita a Bologna ad agosto, ed è stato un cambio importante. La mia vita in paese non era particolarmente serena, ho un ricordo molto vivido, ed è strano perché tendo a dimenticare tutto: avevo forse 13 anni, ero in giro con una mia amica, lei mi vedeva giù e mi ha chiesto cosa avessi. Mi sono fermata, ho guardato intorno e le ho detto: “Io non voglio vivere qui.” A quell’età non erano pensieri comuni. Si andava a scuola, si sceglieva il liceo, poi l’università. Nella mia testa però non c’era niente di tutto questo. Io sapevo solo che non volevo stare lì, anche se non sapevo ancora cosa volessi fare. Sai, anche il rapporto con i miei non era dei migliori. Sono la terza figlia, la più piccola, e questo non ha aiutato. Ero la più ribelle, quella che non riuscivano a gestire, quella a cui forse hanno dedicato meno attenzioni. Mia madre lo riconosce quando parla con persone nuove: dice sempre che mi sono costruita da sola, e io questa cosa la sento tanto. Finché sono rimasta lì, il nostro rapporto era complicato. Da quando sono andata via, invece, ho iniziato ad apprezzare tante cose, soprattutto loro, ma non è stato un passaggio semplice. Ho avuto un periodo difficile, ho sofferto di attacchi di panico e ho sentito il bisogno di una figura materna. Con mio padre mancano ancora dei tasselli, ma quella è una questione sua, legata a com’è fatto lui.
Come passavi le tue giornate?
Le passavo nella noia più totale. L’unica cosa che facevo era uscire di casa e stare in mezzo al nulla, nel verde più assoluto.

Perché hai scelto Bologna?
Non è stata proprio una scelta, è stata una conseguenza. Durante il Covid, quando iniziavo a non stare bene è venuto a mancare il padre del mio migliore amico, Marco. È stato un po’’ un punto di svolta, ho deciso di reagire a quella noia assoluta. Già prima era noia, poi il Covid l’ha amplificata. Così ho pensato: “Vaffanculo, non me ne frega niente, giudicare lo fanno sempre. Mi piace fare musica? La pubblico sui social.” Da lì entro in contatto con un ragazzo che mi propone di venire a Bologna per fare delle sessioni per un progetto. Lo dico a mio padre, che mi risponde in un modo che mi ha spiazzata. Io ovviamente non avevo i soldi per spostarmi, e lui mi dice: “Io in questa roba non ci credo. Per me la vita è un’altra cosa, non puoi perdere tempo a fare quello che ti piace. Però ti aiuto economicamente. Lo faccio solo perché, se un domani dovesse funzionare, non voglio che tu possa dire che io non ti ho aiutata.”
Ah, quindi più per se stesso.
Esatto. Così arrivo a Bologna, conosco Luca, il mio produttore, e da subito c’è grande intesa. Entro in studio, mi fermo e penso: “Qui posso dire quello che voglio.”

Bologna ha influenzato il tuo sound e la tua scrittura?
All’inizio è stato un continuo su e giù: una volta al mese facevo avanti e indietro tra Venosa e Bologna. Questa cosa mi pesava tantissimo, dicevo a Luca: “Io devo stare qui, perché è qui che succede tutto.” Avevo proprio una mentalità sbagliata. Luca, invece, mi rispondeva: “Tu non capisci che la tua fortuna è essere lì, a casa tua. Perché tutto quello che crei e che esce fuori è un dolore che, se tu fossi qui, non vivresti allo stesso modo. Sfruttiamo questa cosa finché dura.” E così è stato. Quando ho sentito di aver preso tutto da lì e di non avere più nulla da raccontare, mi sono spostata definitivamente a Bologna.
Ora che vivi lì, senti ancora il legame con casa tua?
Sì, tantissimo. Anzi, ora che sono a Bologna sento la nostalgia di casa mia. Mi manca persino la noia, il non essere continuamente stimolata.
Hai cambiato il tuo modo di scrivere?
No, le tematiche sono sempre le stesse. Ho sempre avuto un’idea chiara: voglio parlare di una cosa sola, ma in mille modi diversi.
Se potessi scegliere l’evoluzione della tua carriera, cosa vorresti?
Questa è una domanda gigante. Ogni anno mi chiedo: “Io sto facendo questa roba, che è chiaramente un esperimento. Non so dove porterà, ma se dovesse funzionare… è davvero quello che voglio?” e non so mai rispondere. È un 50-50, è come quando vedi un paio di scarpe bellissime: ti piacciono, ma non sai se le vuoi comprare. Sinceramente mi spaventa un po’. Quasi mi cullo nel pensiero che le cose vadano avanti in modo mediocre, perché sono pessimista di natura.
Ma è solo l’inizio.
Proprio per come sono fatta io caratterialmente, intendo. L’ottimismo non mi ha mai bussato alla porta. Cerco di stare con i piedi per terra, anche grazie ai miei genitori che mi ricordano sempre che questo è un lavoro, e come tale va preso sul serio.
Tre brani con cui sei in fissa in questo momento?
Space Song dei Beach House. Sto ascoltando molto anche Lucio Corsi, in particolare adoro Tu sei il mattino.