
JEREMY CHAN
KITCHEN TALKS
di Federico Ledda
location Promemoria – Angelina Kitchen
project manager Valentina Pegorer
edit Simona Ladisa
pictures by Alessandro Levati
JEREMY CHAN
di Federico Ledda
pictures by Alessandro Levati
edit by Simona Ladisa
project manager Valentina Pegorer
location Promemoria – Angelina Kitchen
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Jeremy Chan è uno di quei talenti che non passano inosservati, anche se lui farebbe di tutto per restare nell’ombra. Timido, quasi schivo, eppure dotato di un’energia creativa che lo rende una vera rockstar della cucina moderna. La sua visione gastronomica si esprime alla perfezione da Ikoyi, il ristorante londinese con cui ha conquistato due stelle Michelin grazie a un approccio unico e visionario. La sua cucina è un intreccio di tecnica, ricerca e sensibilità, proprio come lui: riservato ma intenso, dolce ma dirompente e ogni piatto è un perfetto equilibrio tra istinto e controllo. Con idee che sorprendono e conquistano, lo chef sta ridefinendo i confini della ristorazione contemporanea.

Qual è il primo ricordo che hai di quando hai deciso di diventare cuoco?
Probabilmente quando ero seduto alla mia scrivania fingendo di lavorare al computer in ufficio e stavo cercando informazioni su come cuocere il pollo. Ero ossessionato da quel pollo e volevo davvero capire come cucinarlo nel modo migliore. Da lì ho iniziato a interessarmi alle fonti, a come fare un ragù perfetto e a come costruire il sapore di un piatto. Mentre facevo tutti questi esperimenti e ricerche, ho capito che era qualcosa che mi appassionava davvero, così ho deciso di buttarmi.
E il pollo, poi, l’hai fatto?
Sì, l’ho preparato a casa: 60 gradi per sei ore in forno, poi 200 gradi per quindici minuti. Un esperimento un po’ strano, ma ha funzionato. Era qualcosa di nuovo per me, c’erano diversi aspetti da approfondire, ad esempio capire la temperatura, come manipolare gli ingredienti e altri elementi che ho capito man mano.

Ti ricordi quando le cose hanno iniziato a farsi più serie?
Quando ho iniziato a lavorare in una vera cucina. Non avevo esperienza, avevo letto molti libri, pensavo di sapere tutto… poi mi sono immediatamente reso conto che ero lento e inesperto. Il momento in cui è diventato davvero serio però è stato quando ho aperto il mio ristorante. Ho preso un posto con un amico e là ho pensato: “ora non posso più giocare, sto aprendo un ristorante a Londra”. Eppure, quegli anni sono stati estremamente divertenti: eravamo più giovani, non inseguivamo la perfezione a tutti i costi. Ora il ristorante è rigoroso, più serio.
Facendo ricerche su di te, ho trovato che parli sette lingue e che hai imparato l’italiano leggendo Dante. È vero?
Sì, è vero che ho imparato l’italiano grazie a Dante, ma non solo. Ho iniziato a studiare l’italiano per amore della cultura, della letteratura e della lingua stessa. Certo, ho letto Dante, sia a scuola che all’università, ma ho imparato molto anche dai film.
E la musica?
Le canzoni in italiano sono molto difficili da capire, perché contengono riferimenti culturali molto specifici, emozioni e stati psicologici legati a un forte senso di appartenenza. In generale non presto attenzione ai testi delle canzoni nemmeno in inglese, mi abbandono alla musica!

Quali sono i valori con cui guidi il tuo team e te stesso?
Disciplina, rispetto e, soprattutto, con una mente aperta. Non bisogna mai pensare di aver imparato tutto o di aver raggiunto il massimo, ogni giorno dobbiamo spingerci a migliorare, a perfezionare il nostro lavoro e il nostro concetto di cucina. È un processo continuo, una ricerca che non finisce mai.
Il tuo piatto preferito?
Spaghetti aglio, olio e peperoncino.
Davvero?
È un piatto apparentemente semplice, ma molto difficile da fare. Certo, puoi farlo in dieci minuti e va bene, ma se vuoi davvero farlo a modo c’è tanto da lavorare. Io, per esempio, lo preparo con prezzemolo, scorza di limone, aglio, peperoncino, parmigiano, acqua di cottura e spaghetti. Pochi ingredienti, sì, ma è la tecnica che fa la differenza: come estrarre il massimo sapore da ogni ingrediente, è un piatto semplice ma profondo. Diciamo che è il comfort food che preparo per la mia famiglia.
E l’elemento che preferisci di più di Ikoyi e della tua cucina?
Il riso. È un alimento universale, lo trovi ovunque, ma il nostro è speciale. Lo cuociamo in un brodo affumicato di verdure e astice, ha una consistenza croccante e cremosa allo stesso tempo e diverse sfumature di sapore. Credo che chiunque ami il riso lo possa apprezzare.

Il tuo ristorante è cresciuto molto in pochi anni. Come pensi si sia adattato ai cambiamenti del mercato e ai trend?
È stato molto difficile. A volte le persone apprezzano il ristorante, altre no. A volte vogliono spendere, altre no. Se fai cucina tradizionale, le persone sanno cosa aspettarsi, ma se cerchi di innovare, devi sempre cambiare. È un po’ come il mondo della moda. Se sei un brand, non puoi fare sempre le stesse cose—o almeno, non potevi. Ora il trend è che le persone hanno un’attenzione così breve che i marchi possono ripetere le stesse cose senza che nessuno se ne accorga, nel cibo sta succedendo qualcosa di simile: prima la gente notava i dettagli, ora si copia tutto. Navigare in questo contesto e gestire un ristorante che cerca l’innovazione, è molto complicato. Poi c’è l’instabilità politica, i cambiamenti economici, i tassi d’interesse… Tutte queste cose hanno un impatto enorme sulle abitudini alimentari delle persone.

Qual è il piatto che più rappresenta il tuo ristorante?
Probabilmente il riso di cui parlavo prima. È diventato un’icona del nostro menu. Serviamo tanto cibo ai nostri ospiti, e terminiamo il pasto con una grande ciotola di riso delizioso. Il nostro obbiettivo è sempre quello di vedere la gente lasciare il ristorante in maniera felice e soddisfatta.

Un trucco che usi in cucina?
Decisamente i miei coltelli. Sono stati fabbricati per me da un produttore in Giappone, mi accompagnano in ogni servizio da quasi dieci anni.

Quali sono gli ultimi tre brani che ha ascoltato oggi?
They Want My Soul degli Spoon, Mr. Follow Follow di Fela Kuti e High & Dry dei Radiohead

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