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TRA LE MERAVIGLIE DEL FRIULI-VENEZIA GIULIA
di Federico Ledda
TRA LE MERAVIGLIE
DEL FRIULI
di Federico Ledda

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Ci sono territori che non si lasciano capire subito, che si tengono qualcosa dentro e aspettano che tu abbia il tempo, la calma per entrare davvero in relazione con loro. Il Friuli-Venezia Giulia è così: quando cominci a percorrerlo, a guardarlo, ad ascoltarlo, a toccarlo, tutto si trasforma in rivelazione.
Trieste, ad esempio, non si può descrivere in modo lineare: è verticale, scivolosa, disegnata dal vento (che si chiama bora) e dalle ombre. Sedersi a mangiare sul mare significa diventare parte di un quadro in movimento, dove il confine tra l’acqua e il cielo si sfuma. Poi ti volti, cammini pochi passi, ed entri all’ITS Arcademy, che sembra appartenere a un’altra dimensione iper internazionale: moda, ricerca, installazioni, materiali arditi e futuri possibili. È un luogo che parla di ciò che verrà, ma con una compostezza silenziosa, come tutto qui.

Poi cambia tutto di nuovo: lo stadio Nereo Rocco che esplode per Robbie Williams è un’onda emotiva travolgente, la Trieste notturna si riempie di voci, di pelle d’oca, di cori che non finiscono, e mentre cantiamo ci sembra di appartenere tutti al nuovo coro del cantante inglese. Il giorno dopo il paesaggio si svuota, si fa più essenziale, più intimo: i laghi di Fusine sono un’apparizione, specchi immobili incastonati tra gli alberi e le montagne, e il No Borders Music Festival è quasi un esperimento spirituale, dove la musica sembra emanare dalla terra più che dagli strumenti, si mescola al silenzio e lo trasforma in suono.

Ma il momento in cui capisco davvero che questa regione si racconta meglio con il gusto è quando arrivo a Ein Prosit, una manifestazione che non è solo un raduno di chef ma una drammaturgia del sapore, un’installazione viva. Matías Perdomo, con la sua cucina da illusionista consapevole, dialoga con una materia prima concreta, identitaria e rustica solo in apparenza. Accanto a lui, voci diverse e necessarie come Roy Caceres, Paco Mendez, Federico Zanasi: ognuno con la propria grammatica, ognuno a modo suo radicale.
Proprio quando penso di avere capito il senso, mi portano sul Carso, a Prepotto, da Zidarichh. Non è una cantina: è una visione incisa nella pietra. Lì il vino non si fa, si custodisce. È completamente naturale, matura sotto terra, in ambienti scavati nella roccia viva, respira con la terra e ci mette almeno due anni per arrivare a un equilibrio che sia degno di senso. Qui non si cerca l’immediatezza, si cerca il significato.

Così come i vini di Zidarichh hanno bisogno di tempo per essere compresi, anche il Friuli Venezia Giulia chiede la stessa cosa: lentezza, attenzione, profondità. Ma chi è disposto ad ascoltarlo, ne riceve in cambio qualcosa di raro – la sensazione di aver toccato un luogo ancora integro, dove ogni dettaglio ha un peso, ogni incontro lascia traccia, e ogni silenzio dice molto più di quello che sembra.




















