BIG IN 2021:

CAROLINE CORBETTA

di Greta Caldera

hair by Roberto Colletta

pictures by Alessandro Levati

BIG IN 2021:

CAROLINE CORBETTA

di Greta Caldera

hair by Roberto Colletta

pictures by Alessandro Levati

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Quando si parla di arte, la passione è l’ingrediente essenziale per chi lavora in questo mondo. Esistono storie di persone la cui vita sembra un corso di eventi, i quali come una pennellata dopo l’altra, sono destinati a creare un quadro in cui ogni incontro ed esperienza trovano significato dopo aver ripreso a lavorare secondo nuove prospettive. Una di queste è Caroline Corbetta, curatrice indipendente milanese la cui missione si basa sulle possibilità di rendere il sistema dell’arte contemporanea più accessibile per i nuovi talenti e più inclusivo verso il pubblico. Una ricerca continua che comprende ogni aspetto della vita, basata sull’indipendenza da ogni forma di ruolo o incarico precostituito dal sistema dell’arte. Figura multidisciplinare, da oltre vent’anni cura mostre e progetti a livello internazionale e ha scritto per riviste come Vogue, Flash Art e Vanity Fair. Attualmente è Art contributor di Domus. Curatrice di Expo Gate e fondatrice di il Crepaccio, il suo posto è Milano. In risposta alla pandemia, sta attualmente lavorando sull’idea di prossimità, portando l’arte dai luoghi preposti, come peraltro ha sempre fatto.

La figura professionale si contraddistingue per due elementi: trasversalità ed indipendenza. Quanto sono essenziali per te queste caratteristiche nel mondo dell’arte contemporanea?

Per quanto mi riguarda, sono nate da un’esigenza personale. Ho iniziato credendo di poter fare l’artista e mi sono iscritta all’Accademia di Brera. Dopo un anno, mi sono resa conto che non ero un’artista e non bastava volerlo diventare. Ciò nonostante, concludere questo percorso mi ha permesso di comprendere meglio gli artisti e le intenzioni che di solito portano ad un lavoro di qualità. E forse per questo amo fare scouting di nuovi talenti. Successivamente, grazie al Master per curatori dell’Accademia ho capito cosa significa lavorare in questo mondo dall’altra parte della barricata, per così dire. Alla fine degli anni Novanta la professione del curatore non era nota come lo è oggi e per me, quel corso significò aver trovato il mio posto nel sistema dell0arte. Essere un punto di giunzione tra l’artista e il pubblico mi permette di indagare costantemente nuove modalità attraverso le quali è possibile parlare di arte in maniera autentica. Trasversalità in quanto ricerca continua per costruire alternative di mediazione dell’arte. Indipendenza perché corrisponde alla mia necessità di contribuire con modalità, anche artigianali, per così dire, con cui dare un contributo più autentico e forse, alla fine più innovativo, piuttosto che seguire il solco tracciato da altri all’interno di un ruolo professionale precostruito.

Cosa è per te l’arte?

Per me l’arte è uno strumento di crescita prima di tutto personale. Uso l’arte per sentirmi un essere umano più completo. Non si tratta solo del linguaggio dell’arte visiva ma anche quello della letteratura, del design, della musica… Oltre a soddisfare una necessità personale, il mio bisogno è stato sempre quello di trasferirla e mediarla, al fine di renderla più accessibile al pubblico.

Il mestiere dell’arte non può distaccarsi dalla vita. In questo senso la corrispondenza tra sfera professionale e quella privata è continua e costantemente in dialogo.

Per me si tratta di un’esigenza, quella di essere circondata dall’autenticità del pensiero, dallo stimolo continuo che l’arte può darti ma non solo. Considero il mio mondo come un prolungamento di me stessa e viceversa. L’ambiente, le connessioni, le associazioni sono appunti visivi finalizzati a stimolare la mia ricerca continua. Così come quando visito un luogo, ne ricerco l’autenticità, preferendo viverne le energie invece di andare per forza in tutti i musei.
Ciò si riflette anche nelle relazioni. La continua ricerca mi ha portato ad incontrare artisti e personalità al tempo emergenti, come Nathalie Djurberg e Ragnar Kjartansson. Quando ho visto i loro lavori durante viaggi di ricerca mentre cercavo artisti per la Biennale dei paesi nordici (Monumentum 2004) che stavo curando, ne sono rimasta folgorata proprio perché i loro lavori esprimevano un’urgenza creativa.

Il Crepaccio, un progetto tra indipendenza e inclusione. Come è nato e a quali necessità ha dato risposta?

Alla fine del 2011 Milano era la città delle mie collaborazioni editoriali ma sotto il punto di vista espositivo non mi dava ascolto. Dopo aver curato esposizioni sia in Italia che in realtà internazionali come il Moderna Museet di Stoccolma o Performa a New York, volevo creare uno spazio espositivo non commerciale nella mia città. Durante uno dei pranzi con Maurizio Cattelan nell’abituale trattoria di Porta Venezia, chiamata il Carpaccio, da una mia battuta emerge l’idea di fare mostre nella vetrina di quel ristorante in cui solitamente ci incontravamo: nasce il Crepaccio. Che poi è quello che è, una crepa nel sistema dell’arte, una possibilità per gli artisti emergenti di farsi notare in un mondo chiuso all’interno dei propri meccanismi. Dal 2012 al 2016 sono stati quattro anni pieni di energia e di sperimentazione. Il locale fu poi venduto ma devo ammettere che era arrivato ad un punto di saturazione del formato e che aveva bisogno di evolvere. Lavorando al sito in cui ho archiviato questi quattro anni pazzeschi e sgangherati ho capito, d’un tratto, che il mondo digitale poteva accogliere il Crepaccio e l’ho spostato su Instagram. Così è nato ad ottobre 2017 @IlCrepaccio Instagram Show: da una vetrina sulla strada ci siamo affacciati ad una finestra sul mondo. Ritorna sempre l’idea di spazio espositivo gratuito e accessibile in cui oggi indaghiamo le possibilità per le immagini complesse create dagli artisti di esistere nel mondo dell’iper-visibilità (e dell’iper-semplificazione) di Instagram e della società contemporanea più in generale.

Parlando della tua esperienza come curatrice di Expo Gate, in un’intervista hai dichiarato che la mattina era come indossare un elmetto per andare a lavorare. Credi che con la pandemia ci sia bisogno di rindossare quell’elmetto? Di quale posto ha bisogno Milano oggi?

Expo Gate è stata un’esperienza bellissima e difficilissima. Ho lavorato nell’anno precedente ad Expo e in quel momento in pochi credevano in quel progetto universale, c’era molta ostilità, a diversi livelli. Con oltre novecento eventi gratuiti organizzati in un anno siamo però riusciti a realizzare una programmazione multidisciplinare nella città e per la città. L’obiettivo principale era innescare una nuova (auto)narrazione di Milano che valorizzasse le realtà socio-culturali della città. Alla fine, come sappiamo, Expo è stato un successo e Milano è stata finalmente percepita, in primis dai Milanesi, per quello che era: una città ricca di opportunità.
Milano come altre città è stata colpita duramente da questa pandemia, ma non si è spenta definitivamente, sono certa che si rialzerà. Credo anche che durante questo periodo molte persone abbiano capito l’importanza dell’arte nell’esistenza quotidiana. Ho sempre creduto che Milano avesse bisogno di un centro di arte contemporanea, un posto inclusivo e trasversale, uno spazio anche di socializzazione sempre aperto e attivo, consapevole delle esperienze internazionali ma capace di valorizzare i talenti locali. Oggi credo che l’urgenza sia cambiata. Invece di concentrarmi su un luogo sto lavorando sull’idea di portare l’arte nelle comunità locali, sto lavorando sul concetto di prossimità che, dopo il distanziamento imposto dalla pandemia, ritengo sia fondamentale.

Una canzone a cui sei particolarmente legata?

When Doves Cry di Prince. Quando vidi per la prima volta il video nella mia primissima adolescenza fu una rivelazione. Per la prima volta con Prince ho incontrato il talento e le sue urgenze espressive, ho assimilato il linguaggio della diversità (e dell’inclusione). Una figura emblematica che è stata il mio primo input, tutto quello che è venuto dopo è una conseguente ricerca.



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