A PROPOSITO DI DAVIS

di Luca Rivolta APDD_manifesto_30c64dae2547320242320749c05e63fc

Bubu-settete. Eccoci tornati alle origini, al solito (e banale) appuntamento con un film che spacca. Questa volta davvero, non come le ultime due volte, nelle quali abbiamo parlato di cose un po’ inusuali per le nostre pagine. Oggi parleremo di A proposito di Davis, un film del 2013, diretto dai fratelli Coen. Se dovessimo inquadrarlo penso si avvicini al genere “drammatica commedia musicale”. Esatto, un film dei Coen, punto.

La premessa che va fatta è che spacca perché è dei fratelli Coen. Dai, sul serio, come può uscire qualcosa di deludente da quella testa? Una testa in due corpi, spacca per forza.

Sempre cercando di spoilerare il meno possibile, la trama è piuttosto semplice (“il film non aveva una trama vera e propria, e ciò ci portò a riflettere su questo punto, e fu per questo che inserimmo il gatto”): l’ambientazione è quella di una New York agli inizi dei ‘60, più precisamente il Greenwich Village, la capitale del rock, patria di artisti del calibro di Bob Dylan, Andy Wharol e Lou Reed. Come ben sapete quelli erano gli anni del boom folk, gli anni in cui Dylan incise Highway 61 diventando popolare in tutto il mondo. Ma questa, è solo la viglia. Il mondo, seppur per poco, non è ancora pronto ad accettare la musica di Llewyn Davis. È questa è la sua storia, o meglio, è una delle settimane della sua vita, ma l’emblema di essa, e un po’ anche l’emblema del visione dei Coen (chissà perché in questo periodo la parola emblema va così di moda). La storia presenta la temporalità ciclica e breve tipica dei Coen. Il film come inizia finisce. Llewyn, come nasce muore. Povero, così pieno e vero nelle sue parole, ma vuoto nella conclusione di ogni cosa. È la storia di un musicista, uno di quelli veri e completi, a cui non niente funziona, anche se per un momento sembra tutto girare per il verso giusto. Incide un disco di successo? Il suo collega si suicida e lui non ne guadagna quasi nulla. Il gatto delle persone che lo ospitano scappa per colpa sua ma poi riesce a ritrovarlo investendolo poco dopo. Un famoso produttore gli concede un’audizione? Al termine della emozionante ballata riesce solamente a sentirsi dire non si fanno soldi con quella roba”. Prova a fuggire da tutto e tutti imbarcandosi in marina? Perde il biglietto pagato con gli ultimi risparmi.

Il tutto immerso in una cinicissima atmosfera Coeniana, quasi al limite tra il comico e il grottesco. È una vita di stenti, ed l messaggio è uno dei più nichilisti della storia: Llewyn è perfettamente consapevole che lui sia la causa di tutte le sue sventure, ma è altrettanto consapevole che qualsiasi cosa faccia risulta del tutto inutile, che non esiste nulla, che l’esistenza stessa non ha un senso vero e proprio. Che fa schifo tutto, e basta, sia che tu ti dia da fare, sia che passi il tempo sul divano. Così inizia il film, e così finisce: in un quasi sconosciuto locale del Village, a suonare per poche mance. Nellultima scena del film, si intravede un personaggio che si esibisce dopo di lui con una canzone intitolata Farewell. Beh, la sua storia sapete com’è andata a finire.

Certo l’ambientazione in cui è inserita eleva la storia moltissimo, più che altro per la coerenza con cui si sposa col protagonista. Quale personaggio se non un musicista folk del Village può avere tali vicissitudini? È un matrimonio perfetto. Ma penso che l’unico matrimonio che rende perfetto il film sia quello (inconsapevole) tra Joel ed Ethan Coen. Nessun altro sarebbe riuscito a partorire qualcosa che assomigliasse anche lontanamente a tutto questo. Sarebbe rimasta sicuramente una bella pellicola musicale, ma nient’altro.

Da apprezzare senz’altro le citazioni a “Colazione da Tiffany” (uscito appunto nel 61), e le prove attoriali dei vari personaggi, compresa quella di Justin Timberlake, che per quanto mi riguarda rimane la persona che riesco meno a giudicare del mondo. Davvero, non riesco a capire se sia un fenomeno o un coglione.

E banalmente, non passa inosservata la colonna sonora, che riesce a soddisfare le comunque alte aspettative del film: non è facile inserire una colonna sonora originale in un film che parla di una della scene musicali più importanti di tutta la storia.

Il film riesce in tutto e per tutto, e spacca, perché riesce a essere un’opera d’arte, qualcosa che critica senza risultare una polemica, una ballata sull’amore, sull’arte, sull’industria, sul mondo e forse anche sui loro stesso prodotto.

Mi sa che se una sera dovessi uscire a bere con loro, mi sveglierei la mattina dopo nel loro letto.

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BREAKING BAD

di Luca Rivolta

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Prima di iniziare concedetemi una non molto breve premessa. Non sono un divoratore di serie TV, anzi le reputo cosette per riempire inutile tempo di gente inutile, proprio un livello sotto il cinema (forse anche perché lo sono effettivamente). Insomma, nella mia vita non ho quasi mai seguito niente che prevedesse più di 3 episodi, fatta esclusione per Simpson, Griffin e South Park. E anche The Boondocks, che spaccava tantissimo. E in realtà mi son guardato anche tutto Chuck, ma rimane ‘na merda. In ogni caso, il punto è che Breaking Bad esula da qualsiasi cosa sia esistita fino ad oggi. Per questo mi sembra quantomeno corretto dedicargli questo spazio. Non intendo recensire tutta la serie, cercherò solo di dare una spiegazione dell’enorme successo che ha avuto. Io stesso ho iniziato a guardarlo nonostante la mia pigrizia compulsiva mista ad una tipica inettitudine Sveviana, solo per aver modo di poter pronunciare con orgoglio “io l’ho vista tutta, dovete smetterla di elevare a capolavoro qualsiasi cosa fornisca elementi come droga sesso violenza morti”. E così, complice anche i 6 mesi di Infinity gratuiti ottenuti grazie alla Vodafone (marchette), ho deciso di sedermi sulla poltrona e cliccare play. E devo dire che non è stato amore a prima vista. Certo fin da subito si rimane sorpresi della cura dei dettagli, piuttosto che del realismo delle situazioni, dai dialoghi ecc ecc. Sta di fatto che arrivo alla seconda stagione e ancora niente, guardo la terza e nulla, ma alla quarta cambia sbam, un’illuminazione che neanche il Dalai Lama sa cosa significa; e non è stata la quarta stagione in se, perché se, adesso, ripenso alla prima non ha nulla in meno rispetto all’ultima, è solo che serve un “tempo di visione” piuttosto lungo per comprendere bene il tutto. Alla fine dell’ultimo episodio son riuscito a farmi un quadro della situazione: BB piace alla maggior parte della gente perché “oh ma che figo due cuochi di meta vestiti con tute gialle che bevono birra in bottiglia seduti sul divano lui da professore a cuoco molto cattivo ma son morti tutti oh yeeeeh”, ma oltre a questo, per quanto mi riguarda, è un capolavoro. Il primo aggettivo che mi viene in mente è disturbante. È eccessivamente reale. In particolare Walt, è il personaggio più assurdo che sia mai stato creato. È banalissimo, ma al tempo stesso cattivissimo, e subito dopo è anche giustificatissimo, per poi tornare quel genere di cattivo del tipo “ma che cazzo fai sei stronzo eh”. Di solito i cattivi sono affascinanti, e sono comunque classificabili, ci sono quelli veramente cinici e indifferenti, quelli che sotto sotto hanno i loro valori, quelli che sono cattivi per colpa di quella cosa o quel qualcuno. Walt no. È il protagonista, e per quanto cattivo lo si dovrebbe amare, mentre invece lo si finisce per odiare (se non alla fine, dove tutto ritorna come è cominciato). È troppo reale, prende decisioni che non lo rendono né fico né giustificato. Solo una normalissima persona egoista e cattiva. Gli altri personaggi invece, riescono comunque a essere inquadrati. Gus è pacato ma crudele e spietato, Jesse è solo sfortunato, coinvolto a suo malgrado, e soprattutto vittima di tutto e tutti; Hank è il miglior agente della DEA. Non sto assolutamente dicendo che gli altri personaggi sono inutili e scontati. Anzi, sono tutti molto curati, mai superflui, tutto è sempre molto funzionale alla trama. Ma nessuno riesce a sorprendere come Walt. Sempre per quanto riguarda questo punto, nulla è lasciato a caso. Anche le azioni più insignificanti hanno un ripercussione. La trama, nonostante i continui colpi di scena e le varie complicazioni riesce a essere sempre fluida e mai forzata. Tutto gli avvenimenti e le coincidenze seppur al limite del surreale, riescono ad essere perfettamente verosimili e assimilabili senza alcuna fatica.

Penso però, che l’elemento più di disturbo sia la morale assolutamente nichilista. È qualcosa che va oltre il concetto di giudicare, non è un semplice “tutte le cattive azioni hanno una loro giustificazione”, ed è lo stesso Walt ad ammetterlo. Non ha fatto tutto per la famiglia, l’ha fatto per se stesso, per sentirsi vivo. Che a vederla così in effetti era più facile fare rapine, o buttarsi con un elastico legato ai piedi. E invece no. Eventi assurdi, storie di morti, di violenza, e tutto perché? Senza nessun motivo. Non c’è niente sotto, le cose succedono e basta. E non è superficialità, e andare ancora più a fondo di quanto si sia mai scavato, e per questo Breaking Bad è qualcosa di estremamente fastidioso. E tutto ciò che riesce a turbare, a entrare dentro rimane. Per quanto mi riguarda è semplicemente questo il motivo per il quale sia riuscito a farlo venire duro a tutti, critica e pubblico.

Per chi non avesse ancora avuto modo di vederlo, provveda al più presto (dai sono anche stato bravo a non spoilerare quasi nulla). Perché davvero, se qualcosa riesce a tenere incollati non so quanti milioni di telespettatori senza mostrare neanche mezza tetta, è qualcosa che merita.

Ah, e in ogni caso, Game of Thrones rimane ‘na merda che usa i soliti escamotage (sesso violenza morti) per far credere che spacchi. Schifo.

Breaking Bad: Jesse Pinkman and Walter White

MOVIE OF THE MONTH: DRIVE

di Luca Rivolta

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Eccoci qui al solito appuntamento cinematografico. Oggi tratteremo di un film del 2011, diretto da Nicolas Winding Refn, interpretato da Ryan Gosling, vincitore a Cannes per la miglior regia: Drive.

E la domanda è sempre la solita: perché spacca? Ovviamente anche la risposta è la solita: boh.

Per chi non ne avesse neanche mai sentito parlare, non è un film spazzatura stile Fast And Furious, non c’entra davvero nulla. Il ruolo di pilota è marginale al fine della pellicola. O meglio, la trama è ovviamente sviluppata sulle azioni del protagonista, tutto ruota intorno al pilota, ma come suggerisce il titolo, la guida è solo uno degli aspetti, quello più visibile, quasi un travestimento; infatti la parola drive significa anche motivazione, impulso, ma soprattutto piantare, ficcare, basti pensare all’ultima scena.

Molto brevemente: il pilota, di cui non viene rivelato il nome, lavora come meccanico in un’officina, oltre che fare lo stuntman part-time e l’autista per rapine. Si innamora della vicina, proprio mentre gli si apre una finestra che gli permette di entrare a far parte di un campionato automobilistico. All’improvviso, a causa di una serie di eventi quasi fortuiti si ritrova sua malgrado immischiato in un affare di mafia. Come spesso accade nei film trattati in questa rubrica, non è la trama ad attirare: tutte cose già viste un miliardo di volte in un miliardo di film. La prima cosa che colpisce è lo stile del protagonista. Grandi meriti a Ryan Gosling; è risaputo, prendete un fico della madonna, fatelo dirigere da un regista con delle buone idee, e sbam, personaggio dell’anno. La prima peculiarità che salta all’occhio, oltre alla fichezza ovviamente, sono i silenzi. Tutti i personaggi gli parlano e lui, silenzio. Al massimo un cenno col capo. Del tipo che si passa metà del film a urlare “RISPONDIGLIII”, ma una volta superato questo blocco ci si accorge che è in perfetta linea con il personaggio. Nella prima fase del film, quest’aspetto del personaggio fa molto assomigliare la pellicola a “Lost in Translation”, probabilmente per questa storia d’amore che non riesce a diventare una storia fisica, ma non per questo non intensa, con questi silenzi riempiti dalle musiche quasi psichedeliche. Nella seconda fase viene lasciato più spazio alle scene di violenza, rivelando la duplice personalità del pilota, che comunque non abbandona mai la sua pacatissima tranquillità. È come se due cose opposte raggiungessero un punto di equilibrio, dove si mischiano senza distinguersi. Come detto prima, in un film di silenzi, il lavoro lo fanno le musiche. La colonna sonora , dove spiccano nomi come Riz Ortolani (il migliore dei migliori), Kavinsky e Cliff Martinez, con suoni molto synth e martellanti, si sposa magnificamente con le sequenza in una Los Angeles vista da un’altra prospettiva, meno caotica ma ugualmente cruda e spietata.

Il tutto crea un’atmosfera veramente assurda, quasi inspiegabile, un misto di sensazioni contrastanti. Ogni singolo aspetto del film aggiunge quel tocco di cupa pacatezza, dalla colonna sonora, alla scelta dell’uso delle luci, ai titoli di cosa. Qualcosa che rimane dentro.

Drive spacca perché ti rimane dentro, dal primo momento, dalla sequenza iniziale a quella finale. E anche la mattina dopo. Uno di quei film a cui basta pensarci per farti riaffiorare quelle sensazioni. Da guardare per capire.

MOVIE OF THE MONTH: LA BALLATA DELL’ODIO E DELL’AMORE (Balada Triste De Trompeta)

di Luca Rivolta
 
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La Ballata dell’odio e dell’amore è un film di Álex De la Iglesia, vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia, nonostante in Italia, come capita spesso e volentieri, non è stato neanche proiettato nella maggior parte delle sale.
 
Il film è ambientato durante la dittatura di Francisco Franco, (il contesto ha un ruolo fondamentale nella vicenda), ed è principalmente una storia di un intreccio amoroso tra due clown e una trapezista.
 
Concedetemi una piccola premessa: odio i clown. Oddio, non è che li odio proprio, è che mi fanno cacare addosso, un misto di paura e schifo, una cosa strana. Il film è un horror grottesco mascherato da una storia d’amore malata. Quindi vi lascio immaginare la difficoltà. Ma se ci son riuscito io potete farcela tutti, non temete.
 
Il film inizia con una scena davvero di forte impatto: durante la guerra civile spagnola, un generale entra in un circo arruolandone tutti i membri per combattere le milizie fasciste. Il clown, armato solo di machete, ne uccide a decine. È il classico film che solo per la potenza delle immagini convince fin dal primo minuto. Senza spoilerare niente, vi anticipo solo che la storia si sposta poi qualche anno più avanti, quando il figlio, diventato un pagliaccio triste, a differenza del padre che era un pagliaccio felice, entra a far parte di un circo. Il suo ruolo sarà quello di spalla al pagliaccio felice, punto di forza del circo. Banalmente, si innamorerà della sua fidanzata, e sempre banalmente verrà subito a galla la vera natura del pagliaccio felice, infinitamente violenta. Da qui in poi la pellicola si stacca completamente da ogni senso logico, elevandosi a qualcosa di assolutamente grottesco e surreale. Il triangolo amoroso verrà vissuto da tutti in modo più che malato.
 
Non mancano scene di violenza che sfiorano il macabro, le stesse azioni dei protagonisti, perdono completamente qualsivoglia senso razionale. Certo, bisogna essere amanti di questo genere, ma il film, sotto questo punto di vista è davvero sublime. Trovo che sia davvero difficile far combaciare elementi che un senso razionale non ce l’hanno, invece De la Iglesia ci riesce perfettamente. È davvero un film che regge, dall’inizio alla fine. Anche nel finale, fino all’ultimo secondo, sarete immersi nella storia, ma allo stesso tempo confusi, e quasi schifati. La sensazione che si prova è qualcosa di molto simile a quello che prova la protagonista nei confronti dei due clown. Una sorta di seduzione… si è quasi ipnotizzati, ma anche spaventati e disorientati di fronte a tanta violenza e malinconia. Iglesia gioca molto sulla contrapposizione pagliaccio felice e pagliaccio triste, sia nella contrapposizione tra i due, che nel conflitto interiore degli stessi. Una frase riassume a parer mio tutto ciò in modo molto esplicito, quando il pagliaccio felice ammette che se non fosse stato un clown, quasi sicuramente sarebbe diventato un assassino. L’altro lato secondo me degno di nota è la critica al regime fascista che opprimeva la Spagna in quegli anni. Quando si parla di questo argomento, è molto facile sfociare nel banale; sì, sì, nazi-fascisti cattivi, povera gente comune bla bla, tutte cose già viste un milione di volte. Qui invece si nota una critica perfettamente esplicita ma per nulla banale. Iglesia non cerca di andare in profondità, non esplora nuovi punti di vita. Principalmente dice anche lui “fascisti cattivi”, ma lo fa prima di tutto intrecciandolo con la storia, anche se di fatto non c’entra nulla, e principalmente lo fa in modo malato. Riesce a tenersi sul grottesco anche dall’inizio alla fine.
Sugli altri aspetti tecnici non mi soffermerei molto. Sì, tutto molto curato, la colonna sonora aggiunge drammaticità al tutto, cosi come il trucco, le location. Attori impeccabili, come quasi sempre accade quando sono seguiti da un bravo regista. Nota di merito alla fotografia: la maggior parte delle scene sono davvero devastanti, un fortissimo impatto visivo.
 
Come al solito è difficile descrivere a parole certe sensazioni, ma vi assicuro che è assolutamente qualcosa da provare.