Magnolia completamente sold out ieri sera per il concerto dei giovani ragazzi romani CARL BRAVE X FRANCO126. Esplosi letteralmente a partire dal MI AMI festival dello scorso maggio, il duo è riuscito a conquistare durante l’estate tutta la critica e una fetta di pubblico sempre più vasta che ha riempito una location storica come quella in provincia di Milano. Live aperto dall’emergente Frah Quintale che con una grande presenza scenica, ha tradcinato i presenti a cantare sulle note di ”2004” il suo EP. E’ arrivata la volta di Carl Brave X Franco126 che hanno suonato live tutto ”Polaroid”, il loro primo disco. Lo show è durato un’ora, ma per i presenti la serata è passata in un battito di ciglia. Prossimo concerto, vietato mancare.
Appena la incontro mi mette subito a mio agio. Arriva, un po’ in ritardo, accompagnata dalla fidanzata Sierra. Il ritrovo è un bar in Piazza Cavour, c’è un po’ di vento ma si sta bene, è una delle sera d’estate e il cielo su Milano è di un blu intenso.
Ci sediamo a un tavolo e ordiniamo tre margarita, così per rilassarci un po’. La prima cosa che le chiedo mi esce proprio spontanea, come ti definisci? Che tipo sei? La sua risposta poi, è stata bellissima. Io sono io. Non sono uomo, non sono donna. Sono Rain.
Così è iniziato il mio incontro con Rain Dove, la modella gender fluid che sta facendo parlare di sé per il suo impegno sociale in difesa degli esseri umani oltre che per la sua immagine che perfettamente si abbina al mondo maschile e a quello femminile. Lo sa bene Sisley che l’ha appena resa testimonial della campagna con il messaggio sociale #OneOfAKind o, Calvin Klein che lancia la sua carriera facendola sfilare per il menswear a New York coperta solo da un paio di boxer da uomo. È coraggiosa Rain, (sì, si chiama come la parola “pioggia” in inglese e sì, è il suo vero nome, ndr.) che è riuscita a fare della sua particolarità un talento, rompendo un po’ di più il muro dei pregiudizi.
Chi sei?
Chi sono? Io sono Rain Dove. Io sono io. Sono un essere umano, così come tutti gli altri. Sono una modella, attivista e attrice.
Come è iniziata la tua carriera?
E’ iniziata dopo che ho perso una scommessa di football americano contro un’altra modella. Non mi interessava essere una modella, non mi era nemmeno mai passato per la testa, mentre invece lei sosteneva che avessi il viso giusto. Abbiamo quindi scommesso sull’esito di una partita e se io avessi perso, mi sarei presentata a un casting di sua scelta. Così andò, e così mi presentai a un casting di Calvin Klein qualche mese dopo.
E come andò?
Quando mi presentai là, mi dissero di essere nella giornata di casting sbagliata. Guardandomi in giro infatti, vedevo solo modelle con i capelli lunghi e bionde. Giuro che erano tutte bionde, a parte una con i capelli rossi. Pensai quindi facessero il casting diviso per colore di capelli e così mi presentai il giorno dopo. Al mio arrivo realizzai che il casting era solo maschile, pensai: ”mi hanno scambiata ancora per un uomo”, ma la cosa mi divertiva. Così feci il casting e mi presero, realizzando quale fosse il mio sesso reale. Al momento della sfilata, mi diedero il mio outfit che era solamente un paio di boxer maschili.
La sfilata era iniziata, erano momenti frenetici. Avevo quindi un secondo per fare la mia scelta, che poteva essere scappare in lacrime oppure, far rimpiangere alla mia amica di aver vinto la scommessa sulla partita. Scelsi la seconda, e sfilai in topless, coperta solo da un paio di mutande da uomo. Così iniziò la mia carriera da modella.
Cosa ti spinse ad andare avanti anche dopo la scommessa?
Il fatto che se la gente può spendere anche tremila dollari per una borsa, forse ne può spendere tre al mese per garantire acqua pulita a chi non ce l’ha. Ogni persona ha diritto ad avere acqua, cibo e un rifugio. Ho pensato che questo lavoro avrebbe potuto garantirmi una piattaforma per raccontare a molte più persone quello per cui mi batto.
Come sei diventata attivista?
Lo sono sempre stata. Ho sempre voluto fare qualcosa per gli altri. Ho avuto un paio di esperienze dove sono stata molto vicina alla morte, anzi, a volte penso di essere proprio morta. Questo mi ha fatto apprezzare di più la vita. Anche quando sei triste, quando sei arrabbiato. E’ comunque fantastico potere provare delle emozioni. Ti rendono vivo. Avendo passato dei periodi estremamente bui nella mia vita, dove non sentivo niente, ho deciso di aiutare le persone, così che non si sentano mai sole e perse come lo sono stata io. Ho sempre pensato che essere un’attivista significava esclusivamente andare nei paesi del terzo mondo e aiutare. Tipico pensiero da persona bianca. Invece non è così, si può aiutare in tantissimi modi e con qualsiasi mezzo.
Che tipo di attivista sei tu quindi?
E’ un misto tra esperimenti sociali, arte ed espandere la mia voce. Lo amo. C’è così tanto che si può fare.
Qual è il tuo obiettivo principale come attivista?
E’ un obiettivo semplice: garantire a ogni essere vivente accesso ad acqua, cibo, un posto dove dormire e cure mediche. Le quattro cose che ognuno di noi ha bisogno per sopravvivere. So che non ce la farò mai da sola, ma ce la metterò tutta. Siamo tutti una cosa sola, allo stesso livello.
Cosa fai nel tuo piccolo per attuare un cambiamento?
Faccio diverse cose. Innanzi tutto ”dono” i miei canali social come piattaforma a chi ha bisogno di fare sentire la sua voce. Associazioni, organizzazioni, etc. Ad esempio, se c’è un’organizzazione che si occupa dei diritti di persone di diversi colori ed etnie, o sessualità, do libero acceso ai miei canali così che possano diffondere la loro voce.
Poi?
Mi piace fare esperimenti sociali. Credo nella differenza tra gender e sesso. Il sesso è quello che ti caratterizza in base a come nasci. Sei una donna se hai la vagina, sei un uomo se hai il pensa. Il gender è invece quello che completa la tua persona. Chi è che può definire quello che siamo se non noi stessi? Dovremmo essere liberi di poter scegliere noi stessi cosa essere, se essere uomini o donne. Dovremmo essere apprezzati e definiti in base a quello che scegliamo di essere, non a quello che dovremmo essere. Io sono io, tu sei tu e non ci sarà mai un’altra persona così.
Cosa pensi di Beyoncé? E del suo essere femminista?
Sono fermamente convinta che le donne esistano perché la società ci ha separate definendoci donne in base a quello che abbiamo nelle mutande. Io non credo nei corpi, credo nell’essere. Mi definisco un’esistenzialista, ognuno è com’è e non dovrebbe essere definita donna solo per un paio di tette. Le femministe combattono l’oppressione del genere femminile all’interno di alcune culture denunciandolo, cercando l’equazione dei sessi. Rispetto davvero tanto tutto questo. Così come ammiro Beyoncé che utilizza la sua rilevanza per fare del bene. Sta facendo un lavoro incredibile.
Parlando del tuo lavoro, ti trovi più a tuo agio indossando vestiti maschili o, vestiti femminili?
Con quelli socialmente definiti da uomo. Perché puoi fare come ti pare. Con quelli da donna hai da rispettare degli standard: fianchi, seno, taglia etc… Sono più a mio agio indossando menswear, ma quando mi vesto a donna mi sento potente. Forte. E’ divertente perché quando mi vesto da donna, la gente creda che sia un transgender, pensano: ”starà diventando una donna? Starà diventando un uomo? Quale direzione starà prendendo?”
Dal sound trascinante e puramente elettronico, la band milanese Younger And Better si sta facendo conoscere attraverso un intensivo tour che per tutta l’estate li ha portati in giro per l’Italia. Li abbiamo incontrati e ci hanno fatto sentire in anteprima il loro primo disco in uscita a ottobre…
Parlatemi del vostro nome. Che cosa è Younger and Better?
Il nostro nome è ispirato direttamente da una canzone dei 65daysofstatic, chiamata appunto ”When we were younger and better”. E siccome l’età media del gruppo è di 24 anni ci sentiamo ancora liberi di non essere a disagio a portarlo. Un giorno, tra un po’ di anni, potremo buttarla sull’ironia.
Avete appena finito un tour di venti date senza aver ancora rilasciato un album vero e proprio ma solo degli EP, come ha reagito il pubblico?
Molto bene. Siamo assolutamente soddisfatti. Era importante per noi testare i nuovi brani direttamente sul palco. Abbiamo portato in giro solamente pezzi tratti dal nuovo disco e il pubblico ha risposto alla grande.
E’ sempre stimolante portare dei lavori inediti davanti a qualcuno, è importantissimo vedere le reazioni di chi ti ascolta e paragonarle a quelle che ti aspettavi tu.
Come definireste il vostro sound?
E’ sicuramente il risultato naturale di una serie di input che ci sono arrivati durante il periodo di transizione dall’uscita di “Take Care EP” e l’inizio della nuova fase di scrittura.
C’è molta più elettronica, abbiamo inserito percussioni e loop di chitarra. Non c’è un modo per definire e racchiudere il genere che vuole essere questo disco, se volesse esserne solamente uno. L’unica cosa da fare è venire ad ascoltarlo dal vivo prima ancora di sentirlo su Spotify.
Chi vi ha ispirato?
Una serie di fattori ci hanno portato a voler fare ancora qualcosa di diverso rispetto al suono concreto che avevamo trovato per “Take Care EP”.
Abbiamo sentito il bisogno di risputare fuori tutto quello che abbiamo immagazzinato negli ultimi due anni.
Quindi persone, situazioni, luoghi.
Siamo molto soddisfatti perchè pensiamo che questo disco sia la perfetta sintesi del nostro pensiero. Del modo di vedere la musica, di farla.
Se ci sono delle band dalle quali abbiamo preso di più per questo sound non possiamo che fare il nome di Battles ed Errors.
A ottobre uscirà il vostro album, come vi state preparando?
Suonando. Suonando tanto, e modificato il live set di data in data. Abbiamo come obiettivo quello di arrivare ad ottobre con un live set perfetto, e poter portare in giro uno show di qualità.
Descrivete l’album utilizzando un solo termine e spiegatemi il motivo.
Colori. E’ un album pieno di colori. Colori caldi. Ce ne sono tantissimi, dall’utilizzo di determinati synth al suono dei loop di chitarra. E questo sul palco si avverte. Lo avvertiamo noi, lo avverte chi ci ascolta.
La loro Too Much è stata tra le canzoni più suonate di tutta l’estate totalizzando oltre due milioni e mezzo di stream su Spotify. Abbiamo incontrato i nostri amici de Il Pagante che, in tutta confidenza, ci hanno spiegato che cosa per loro è un po’ too much…
Che cosa è too much? FN: (Federica Napoli) Tante cose possono esserlo, dai modi di fare, di essere, di vestirsi in base alle mode… Too Much per noi rappresenta tutto quello che è eccessivo. EV: (Eddy Veerus) L’altro giorno per esempio, il presentatore di un festival aveva un completo giallo, con le scarpe fluo. Quello era un po’ too much.
Gliel’avete detto? EV: Eh, gliel’ho dovuto dire…
E lui? RB: (Roberta Branchini) Ha detto che era vero, era un po’ too much.
EV: Abbiamo quindi fatto questa canzone per identificare un po’ tutto quello che per noi è too much. Anche perché era diventato un modo di dire che tra di noi veniva utilizzato molto spesso.
Lanciate anche parecchie frecciatine nel pezzo… RB: Assolutamente tutte volute, eh.
Tra cui quella ad una web star, che un mese fa non l’ha presa presa benissimo, sfogandosi nelle sue Instagram Stories RB: Il nostro ritornello era generalizzato, non era mirato a qualcuno nel dettaglio. Chi si è sentito tirato in causa è perché magari due domande se le è fatte. EV: Il ritornello dice: ”ma perché parli sempre di Trump?” Che è una metafora che vuole indicare tutti quelli che si spingono in discorsi oltre le loro competenze. Prosegue poi con: ”ti prego torna a fare la web star” cioè, torna a fare quello che sai fare. Ridimensionati. Il fatto che qualcuno si sia poi sentito chiamato in causa, significa che è cascato nella trappola… Che la cosa ha funzionato. Mi spiace solo che a caderci sia stato uno Youtuber inutile come Riccardo Dose e non qualcuno che conti di più, ecco.
Il video si apre con una special guest d’eccezione: il senatore Razzi. Come l’avete recuperato? EV: Abbiamo un amico che si occupa di trovare le special guest dei nostri videoclip dato che ormai averle è una costante. Avevamo scritto una scena che volevamo il senatore interpretasse, così gliel’abbiamo proposta… Il pubblico ha apprezzato e lui è stato gentilissimo.
Cosa dite a chi ancora oggi non capisce la vostra ironia? FN: Che dopo cinque anni è un po’ rincoglionito… RB: E che dovrebbe iniziare ad ascoltarci di più. EV: Diciamo che chi dopo cinque anni non ha ancora capito la concezione de Il Pagante è un po’ too much.
Vera e propria magia sonora quella che ieri sera gli Interpol sono stati capaci di ricreare in concerto a Milano, in tournée per le celebrazioni del quindicesimo anniversario dall’uscita del loro primo album ”Turn On The Bright Lights”, definito da Pitchfork il miglior album del 2002. La band non si smentita affatto, riuscendo a ricreare sul palco la perfetta atmosfera che ha reso il disco un vero e proprio must per gli amanti del rock alla Joy Division. La band di New York dimostra quindi di saperci ancora fare, di non aver perso il proprio tocco nonostante un pubblico freddo, seppur numeroso.
Scaletta con un focus on sul disco ”festeggiato” come d’altronde ci poteva aspettare, che è stato eseguito interamente dalla prima all’ultima nota, seguendo perfino la tracklist originale.
Non sono mancati poi gli altri successi che caratterizzano la band come ”All The Range Back Home” ed ”Evil” che è stato il pezzo di chiusura.
Se ve li siete persi, non fateveli scappare di nuovo. Sperando che la prossima volta il pubblico sia più acceso…
Un’artista che mi piace particolarmente ascoltare durante questo periodo di pausa è sicuramente Gazzelle. Cantautore romano che mi ha interessato per il suo sound fresco e per la scelta di non rivelare la sua identità a inizio carriera. Risale infatti a poco prima dell’estate la scelta di esporsi anche a livello ”visivo”.
Anche lui, come altri grandi artisti quali Mudimbi, Lo Stato Sociale e Canova, Gazzelle faceva parte degli artisti presenti al Big Bang Festival di Nerviano. Manifestazione gratuita dalla grande line up alle porte di Milano giunto ormai alla quinta edizione. Tra una birra e un live abbiamo scambiato due chiacchiere con l’artista che ci ha raccontato come ci si sente ad essere uscito allo scoperto…
E’ uscito a marzo Superbattito, il tuo primo disco. Come sta reagendo il pubblico?
Una bomba! Sto facendo un tour molto intenso, le date sono super, il pubblico è sempre caldo. Sta andando meglio di ogni mia aspettativa.
Da cosa è stata dettata la scelta di nascondere l’identità agli inizi della tua carriera?
In generale per il semplice fatto che non mi piace tanto apparire. Non in modo estremo, non mi voglio nascondere…Non so come cazzo dirlo, voglio che escano prima le canzoni. Voglio stare un passo indietro rispetto alla mia musica, specialmente nella fase iniziale, in cui me lo potevo permettere.
Come sta evolvendo la cosa, adesso che comunque ti si vede per forza?
Beh infatti, ai live mi si vede…Ma mi si vede di più rispetto prima. Ovviamente sui social, non farò mai i selfie in bagno o cose del genere. Spero solo che andrà bene, sempre così, a duemila. Adesso stanno anche uscendo delle canzoni nuove. Sono molto felice.
Qual è la canzone che più ti piace suonare live?
Non sei tu.
Perché?
E’ la più vecchia che c’è nel disco, l’ho scritta circa tre anni fa. Ci sono molto legato. Le voglio bene.
L’estate sta finendo, così come le tue date esiste, cosa ci sarà dopo?
Ancora date. Andremo avanti tutto l’inverno a suonare. Non so cosa ci sarà dopo, per il momento mi sto focalizzando a spaccare durante le date. Il resto si vedrà.
La musica italiana sta vivendo un bel periodo. Finalmente si è incominciato ad apprezzare la musica indie a livello mainstream: la suonano le radio, la gente l’ascolta , va a sentirla dal vivo e sempre più festival, nascono con l’idea di portare sul palco freschezza. Così come ha fatto lo scorso giugno il BIG BANG Festival. Manifestazione gratuita alle porte di Milano, con una line up più che indie. Tra questi Lo Stato Sociale, Gazzelle e i Canova. Band milanese che sta conquistando un pubblico sempre più vasto grazie alla qualità dei loro live che, infatti, li sta facendo viaggiare da nord a sud nei festival più importanti. È uscito Avete Ragione Tutti, il loro primo disco e noi li abbiamo incontrati dopo il loro live, su un divano gigante dietro il palco del Big Bang. Ecco cosa ci hanno raccontato. Siete appena scesi dal palco: com’è andata là sopra?
Pazzesco, la gente era tanta e interagiva. Io ho pure un po’ di febbre oggi, però vaffanculo.
Questa estate è veramente fortunata per voi. Come state gestendo questo exploit?
Se stessimo a casa tutti i giorni, la vedremmo in maniera più lucida. Essendo in tournée da mesi, ci concentriamo sui live…Il resto è un contorno.
Parlando del vostro album, qual è la canzone di cui andate più fieri?
Avendo all’attivo un solo disco di nove tracce, più Threesome che è uscita due mesi fa, è impossibile scegliere. Le consideriamo come un insieme, si completano.
Com’è nata la copertina del disco?
E’ stato un caso…Volevamo che avesse un appeal pop, che venisse capita dalla gente. Abbiamo quindi cercato in base a dei tag alcune foto su Instagram selezionandone una cinquantina che ci piacevano, scattate da comuni utenti dell’app. Alla fine abbiamo scelto la foto che poi è diventata la copertina dell’album. L’immagine, fatta da una ragazza, fa parte di una serie di sei foto.
E le altre come sono?
Sono sempre queste due ragazze nude…In diverse posizioni, diciamo. La cosa ci è stata utile perché le abbiamo utilizzate per tutto il resto: foto promozionali, tour etc…
Com’è andata la cosa? Le avete scritto su Instagram?
Sì, le abbiamo un messaggio privato dicendo: ”ciao, complimenti (ride, ndr.) per le foto, ci sentiamo?” e lei non capiva ovviamente e mi fa: ”ma per cosa?” così ci siamo visti e le ho spiegato la nostra idea.
E non è successo altro?Eh no…Solo le fotografie (ride, ndr.).
Anche la stampa ha parlato e sta parlando bene di voi. Che effetto vi fa?
Guarda, di base non ce ne frega un cazzo. Nel senso che qualunque sia l’opinione, il nostro approccio alla musica non cambia. Appunto per questo il disco si intitola ”avete ragione tutti”.
Come si formano i Canova?
Boh, non mi ricordo. Sai, se fossimo una coppia, saremmo una di quelle coppie che si sono innamorate alle elementari e mai si sono lasciate. Ci conosciamo da sempre e siamo sempre stati noi, non siamo stati i ricambi di qualcuno. Noi. Siamo una banda più che una band. Fratelli.
Come avete unito i vari background della band per creare il vostro sound?
Non sono poi così diversi. Essendo cresciuti insieme abbiamo tutti gli stessi gusti. Ci definiamo vecchi dentro. Non siamo tipi da dj set ma da vinili e birre. Ascoltiamo Battisti e i Beatles come se fossero adesso in radio, in nostro background è proprio questo.
Qual è il vostro obiettivo?
Aspiriamo a una carriera tipo quella di Brunori Sas. Lui è partito dal niente ed è diventato quello che è oggi grazie all’affetto del pubblico e alle sue canzoni. E’ quello che vorremmo succedesse a noi.
Rapper. Rapper. Rapper. Di sicuro nel mondo della musica è il trend del momento. In Italia, tutti aspirano ad essere rapper… tutti ci provano, ma in pochi ci riescono.
Provarci alla fine sembra semplice, al giorno d’oggi con un computer, un microfono e con una base, magari cercata su Google il gioco è fatto. Basta scorrere un po’ YouTube e Instagram per trovare mille ragazzi che tentano, passando però più tempo a curare la loro immagine che il loro sound.
Chi invece ultimamente mi ha colpito, in particolare per il suo flow e per la sua street credibility ha il nome di LAZZA. Ci hanno visto giusto Dj Slait e Low Kidd che fondando un nuovo collettivo/etichetta chiamata 333 MOB hanno dato una possibilità al talento di Jacopo Lazzarini – questo il suo vero nome – di sbocciare.
Ieri ero a bere qualcosa con un mio amico, e parlando di musica è uscito il nome di Lazza. Al che al mio amico, è spuntato un sorriso grande quanto una casa e mi ha detto: “credo che lui non se lo ricordi, ma da piccoli eravamo amici. Mi ricordo quando andavamo al parco per giocare a calcio e lui si metteva a fare freestyle… riusciva ad andare avanti per ore”. Incredibile quanto il talento e la passione siano riusciti a rendere questo ragazzo appassionato di musica un vero professionista, con tanto di primo album in classifica e una tournée da tutto esaurito che lo porterà anche a suonare al WOODOO FEST il prossimo 21 luglio, festival dalla line up molto interessante nella provincia di Varese. Non solo: opening act ufficiale di Salmo, Lazza o ZZALA, (come il titolo del suo album, ndr.) sta facendo crescere la sua fan base a vista d’occhio e a ogni live è sempre più grande.
Merito di quella luce che ha negli occhi e che gli ho visto in prima persona. Occhi che brillano di passione.
Siamo stati nel quartier generale della 333 mob dove dopo un tour, abbiamo chiacchierato un po’…
La cosa che più mi ha colpito di te sono state le tue influenze che partono dalla musica classica. Come ti sei avvicinato al mondo hip hop?
A 11 anni, tramite amici che mi hanno introdotto al freestyle.
Cosa ti ha colpito principalmente della cultura dell’hip hop?
Il fatto che quando facevo freestyle la gente urlava. Più la rima era fatta bene, più la gente si gasava più cercavo sempre di farla strillare di più.
Il tuo primo disco ha il titolo di ZZALA. E’ una cosa molto comune tra i giovani, per lo meno milanesi, quella di invertire le lettere. E’ uno slang. Madre diventa ”drema” ad esempio. Fa parte anche del tuo linguaggio abituale?
Certo, è un tipo di linguaggio che ho sempre usato e che mi è rimasto sin dall’adolescenza. Non mi ricordo nemmeno chi me l’abbia il perché abbia iniziato a parlare così, ma in generale vedo che è una cosa diffusa per tutta Milano. Il disco prende quel titolo perché per gli amici sono Zzala.
Come è nata la tua collaborazione con la 333 MOB?
Stavo uscendo da un’altra realtà. Conoscevo Low Kidd da tempo e una volta sono passato in studio da lui per provare a lavorare a qualcosa insieme. Insomma, da uno i progetti sono diventati due, tre e abbiamo deciso di dare vita a qualcosa di continuativo…Che avesse un capo e una coda. Così è nata questa etichetta/famiglia. Siamo molto legati tra di noi. Abbiamo raggiunto traguardi non indifferenti e ne siamo molto contenti.
Nel disco c’è anche una collaborazione con Salmo e Nitro. Come è nata?
Dal nulla! Ai tempi l’avevo proposta a Maurizio (Salmo, ndr.) dicendogli ”se mi dici di no, non si offende nessuno. Stai tranquillo”. Lui mi ha risposto ”la faccio volentieri!”.
Un giorno mentre eravamo già in fase di mixaggio con il disco Mauri ci ha mandato via nota audio un beat su cui stava lavorando e Kidd è impazzito. Non ha nemmeno chiesto il mio parere, sapeva che mi sarebbe piaciuto… Il giorno in cui l’abbiamo portato in studio per lavorarci c’era anche Nitro che sentendo il beat si è preso bene. Al che gli ho proposto se volesse fare un paio di battute anche lui e la risposta è stata sì. Ecco com’è nata!
Quanto ha influito il tuo background classico sulla creazione del disco? So che in alcuni pezzi hai anche suonato il pianoforte…
Per trovare la linea melodica giusta sono stato dietro anche a Low Kidd mentre produceva, io abbozzavo, lui poi modificava. Suonavo due cose…Vedevo se funzionava o meno. Gli studi che ho fatto, mi facilitano il lavoro, ho più consapevolezza di quello che vado a fare, ecco.
Qualche tempo fa abbiamo intervistato un altro componente della 333 MOB ovvero, ZUNO realizzando così la sua prima intervista. Cosa ne pensi di lui?
Oltre al suo ottimo potenziale e una grande voglia di fare, io vedo in Zuno un fratello. Per me lui è uno di famiglia. Infatti quando gli vedo fare delle stronzate che di sicuro alla sua età facevo anche io, glielo dico, cerco di proteggerlo. E’ da apprezzare ci siano ragazzi così. Ha costanza. Vive per questo e io sono fiero di lui. Ha una grande testa e sono sicuro che farà strada.
In questo momento in Italia ci sono moltissimi rapper. Ne Escono come i funghi. Come la vivi? Pensi che il mercato sia saturo?
Innanzi tutto penso che devono tremare tutti perché io sono tornato in studio! (Ride, ndr.) A parte questo, non credo sia saturo, mi fa piacere sentire voci nuove, penso che ora come non mai, ci sia un ottimo ricambio generazionale.
Sei in tour e lo sarai per tutta l’estate. Com’è andare in tour? Ti agita?
Mi agita solamente se so che ci sarà poca gente, quello mi mette ansia. Se c’è tanta gente è facile, hai meno lavoro da fare. Il lavoro di un’artista sta nel dare tutto sé stesso anche se sotto ci sono solo dieci persone. Le devi fare strillare come se fossero mille.
Non conoscevo i BlackAngels molto bene, anzi, non li conoscevo proprio. Fino a quando, un paio di mesi fa, spulciando per bene il mio Spotify ho scoperto il loro singolo Currency. È stato amore a prima vista.
La band di Austin, Texas mi ha colpito per il loro stile realmente psichedelico, non wannabe come funziona oggi. Sembra quasi di ascoltare le produzioni di una band di metà degli anni 70, quelle che sei convinto abbiano suonato a Woodstock. Non a caso, infatti, la band ha come riferimento iconiche band come Doors o Velvet Undeground, da dove appunto, prende spunto il nome della band.
Reduci da due date-trionfo in Italia, abbiamo incontrato Christian Bland e i BlackAngels per chiacchierare del loro nuovo disco “Death Song” e di quanto la morte influisca nei loro lavori.
Come descrivereste il vostro ultimo album? Quale è stata l’ispirazione?
E’ un istruzione manuale alla vita e alle sue insidie. L’ispirazione è semplicemente stata la vita. Quali sono le differenze dal vostro precedente lavoro Indigo Meadown? Death Song ha avuto un processo creativo più lungo. Le canzoni sono maturate e sbocciate con il tempo. Indigo Meadown è stato un album più impulsivo.
Currency, il vostro nuovo singolo, ha un sound quasi infausto. Riflette il modo in cui vi sentite adesso?
Assolutamente.
Siete in tour. Com’è essere tornati on the road?
Indescrivibile. Amiamo suonare dal vivo.
Quale canzone di Death Song è la vostra preferita? Perché?
Cambia in base al nostro umore. Adesso è Grab As Much (As You Can). Il groove che ha il basso di Alex in quel pezzo è da brividi.
Epicità incontrastata per il concerto del premio Oscar Hans Zimmer.
In un Mediolanum Forum infuocato, il compositore tedesco ha ridato vita con un coro e un’orchestra di oltre trenta elementi, alle colonne sonore più celebri del mondo, che l’hanno reso con tutta franchezza, il compositore di colonne sonore più richiesto dalle produzioni americane e non.
Dal Re Leone a Batman passando da Pirati dei Caraibi e Momenti di Gloria, l’artista ha saputo incantare i presenti con uno show da fare invidia a qualsiasi pop star.
Avvolti da musiche avvincenti ed emozionanti accompagnate da pirotecnici giochi di luce e visual accattivanti, il pubblico presente è stato rapito dal compositore, che attraverso musiche e divertenti aneddoti tra un pezzo e l’altro, ha saputo incantare i presenti, regalando una serata che nessuno dimenticherà facilmente.
Durante il live non sono mancati nemmeno i momenti per riflettere e commuoversi, come quando Zimmer ha reso omaggio all’attore scomparso Heath Ledger, che conobbe durante la lavorazione delle pellicole su Batman e alla quale si legò molto.
Creare una realtà importante e significante per la moda di tutto il mondo non è da tutti. Lo sa bene Brenda Bellei, co-fondatrice del White, il salone collaterale alla fashion week milanese che di anno in anno diventa una manifestazione sempre più rilevante. Il White sceglie per ogni stagione i brand emergenti e non più interessanti e meritevoli, offrendogli la possibilità di mostrare la loro collezione all’interno dell’evento.
Sono stato invitato a visitare il White per vedere con i miei occhi la freschezza che la fiera sta riuscendo a sviluppare grazie ai sui designer. Insieme a me c’era Brenda Bellei, che mi ha spiegato come si mette in piedi una manifestazione così di rilievo…
Quanto il White è diventato importante per Milano?
Spero tanto. Il salone porta a Milano più di 25mila operatori a edizione. Senza contare gli espositori, collaboratori, stampa etc… Credo che portiamo molto alla città infatti, siamo gli unici ad essere patrocinati dal comune.
Nel corso degli anni il White è diventata una potenza mondiale. In che modo si è sviluppato?
Avevo 28 anni, e insieme a Massimiliano Bizzi abbiamo pensato a creare questa realtà. Sembrava una follia giovanile, mai avremmo pensato arrivasse a questi livelli… Ne siamo molto contenti.
Per che cosa sta ”WHITE”?
Abbiamo voluto scegliere un nome che non fosse un nome fieristico. Essenziale. Un po’ Margiela (ride, ndr.)
Quai sono stati i punti di forza che vi hanno portato fin qui?
Senza dubbio la passione e la dedizione per quello che facciamo. Facciamo tanta ricerca, scouting. Questo è importante. Sin dal primo giorno abbiamo sempre cercato di dare tutti noi stessi.
Come avviene lo scouting?
Viaggiamo tantissimo, in tutto il mondo. Visitiamo le fashion week internazionali, da quelle più importanti, a quelle più piccole e sconosciute. Andiamo nei negozi, visitiamo le altre fiere. Abbiamo poi un bacino di richieste che cresce sempre a dismisura. Da scouting e richieste selezioniamo i brand più consoni e li invitiamo al salone.
Qual è la metrica di giudizio per selezionare i brand?
Abbiamo una commissione composta di giornalisti e buyer. Insieme cerchiamo di studiare il brand in tutte le sue sfaccettature come ad esempio, la sua distribuzione, la copertura della stampa, in quali negozi è presente etc. Se invece il brand è emergente, incontriamo lo stilista, guardiamo gli schizzi…Abbiamo un team di tutoring che ci aiutano a capire e aiutano lo stilista stesso, a emergere.
Qual è il futuro del White?
Renderlo un prodotto sempre più internazionale. Stiamo lavorando tantissimo all’estero, portando brand internazionali, abbiamo brand Cinesi, Belga, Georgiani. Ci piacerebbe renderlo sempre di più una finestra sul mondo.
Eccoci, non siamo scomparsi. The Eyes Fashion esiste ancora.
La scelta di uscire con un ritardo di metà mese, è stata dettata dal fatto che in copertina ci trovate lei: Greta Scarano. Attrice di un talento disarmante, sta ricevendo sempre più consensi da parte del cinema italiano. Vincitrice di un nastro d’argento come miglior attrice non protagonista in Suburra, Scarano sta vivendo un periodo estremamente occupato. Da oltre un anno al cinema, prima con Suburra, poi con La Verità Sta In Cielo e adesso con Smetto Quando Voglio – Masterclass, abbiamo incontrato Greta in una giornata di pausa tra un progetto e l’altro. Estremamente simpatica e dolce (al cinema fa sempre ruoli forti, ndr.) ci ha raccontato com’è la sua vita e cosa si prova a essere sempre più richiesta…
Hai sempre seguito, sin da giovanissima, la tua passione per la recitazione, che ti ha portato perfino a studiare in Alabama. Quali sono state le differenze maggiori che hai trovato, lavorando nel teatro italiano e quello americano?
Ho vissuto in Alabama all’età di 16 anni. Lì ho frequentato il teatro nell’ambito dell’high school, portando in scena due spettacoli. Posso quindi più che altro parlare della mia esperienza scolastica, che è stata intensa. La principale differenza con l’Italia è che il teatro e la recitazione sono materie scolastiche e come tali vengono trattate. Naturalmente sono materie molto amate perché gli studenti mettono in scena spettacoli che poi vengono proposti in concorsi statali, competendo con altre scuole. È stimolante far parte di una realtà che mette l’arte, la recitazione e il teatro al centro della vita degli studenti. Sarebbe bello se potesse essere così anche in Italia: fornire una preparazione artistica agli studenti delle scuole dell’obbligo stimolandone la creatività e la sensibilità, permetterebbe di formare professionisti del nostro settore molto presto. Mi capita spesso di essere contattata da ragazzi che vorrebbero fare gli attori o i registi, ma non sanno da dove cominciare.
Non tutti lo sanno, ma hai anche studiato batteria e percussioni. Quanto la musica influisce nella vita?
La musica cambia sempre tutto. Duramente l’adolescenza, la mia vita era fatta di cd e dvd. Li collezionavo. Mia madre mi diceva che un giorno o l’altro sarei andata in giro vestita di album perché non compravo altro. Recentemente ho lavorato con Stefano Mordini, abbiamo girato un film insieme. Stefano porta la musica sul set e chiede a tutti di lasciarsene ispirare, perché ogni scena ha una sua temperatura, un suo ritmo, proprio come le canzoni. E le scene prendono subito vita. Il set è coinvolto in questo nuovo processo creativo che si nutre dell’energia di tutti.
Che musica ascolti? Cosa c’è nelle tue playlist?
Mumford&Sons, First Aid Kit, M83, Janis Joplin, Fabrizio De André, Lady Gaga, The Black Eyed peas, Kanye West, Lucio Dalla e mille altri.
La tua strada nel cinema è solo all’inizio, ma hai già interpretato importanti ruoli. Qual è il processo che ti porta dentro un personaggio? Quanta Greta c’è dentro i tuoi personaggi?
Prima leggo la sceneggiatura, cerco di capire che film è e che personaggi racconta. Cerco di capire gli archi emotivi dei personaggi, imparo le battute a memoria, le provo da sola. Poi chiedo al regista, mi confronto con tutti i reparti che mi aiutano nella creazione del personaggio. Lavoro quindi a stretto contatto con il costumista, il truccatore, il parrucchiere, cerco riferimenti, non faccio che pensare a come sarà il mio personaggio. Poi cerco di dimenticare tutto, arrivo sul set e lavoro sull’istinto, sulla ricerca di qualcosa a cui non avevo pensato prima, provo a farmi sorprendere dai miei colleghi attori, mi cibo di tutto quello che mi circonda e uso tutto quello che mi viene messo a disposizione. Di solito, più o meno, faccio così. C’è tanto di me nei personaggi che interpreto, sarebbe impossibile evitarlo.
Qual è il ruolo che hai interpretato alla quale sei più affezionata?
Sono affezionata a tutti i personaggi che ho interpretato, ma ad ognuno in modo diverso.
Cosa pensi del cinema italiano? Quali sono i registi che apprezzi di più?
Vorrei vedere le sale piene di pubblico, vorrei vedere film ambiziosi e coraggiosi. Ripongo molta fiducia nelle nuove generazioni. Amo Garrone, Sorrentino e Mordini perché sono dei visionari. Amo Veronesi che adora i suoi personaggi e si dedica con passione agli attori che sceglie.
Avendo studiato tra gli Stati Uniti e l’Italia, quali sono le differenze maggiori che adesso, da professionista, noti tra il cinema italiano e quello a stelle e strisce?
Il cinema americano è un’industria che genera enormi ricavi. C’è uno star system che smuove le masse. Noi abbiamo vissuto di rendita per molti anni, poi abbiamo iniziato a deludere e oggi paghiamo il prezzo della sfiducia del pubblico nei confronti del cinema italiano. Ma c’è la voglia di riconquistarla. Io, da parte mia, non voglio mai deludere chi viene al cinema a vedere un film dove ho lavorato. Dobbiamo ricucire il rapporto con gli spettatori e dobbiamo ricominciare ad investire seriamente nell’industria cinematografica raddrizzando una serie di storture che la bloccano. Dobbiamo stimolare le nuove generazioni a nutrirsi di cinema.
Sei nata e cresciuta a Roma, quali sono i tre posti che più ti piace frequentare quando sei là?
Adoro le ville di Roma, villa Pamphili su tutte. Amo mangiare in un buon ristorante e fare lunghe passeggiate notturne, Roma è più facile di sera. Amo andare a vedere un film al nuovo Sacher.
Su cosa stai lavorando in questo momento?
Ho appena di finito di girare un film per la TV diretto da Stefano Mordini su Emanuela Loi, la prima donna poliziotto uccisa dalla mafia. Emanuela faceva parte della scorta di Borsellino ed è morta nella strage di via d’Amelio. Uscirà su Canale 5 in autunno. Non vedo l’ora. A maggio dovrebbe uscire una serie che ho girato per Rai 3, ma non posso ancora parlarne.
Dalla foto storica ritraente Steve Jobs utilizzata perfino da Apple, al poster di Kill Bill, siamo tutti familiari con i lavori di Albert Watson. Fotografo scozzese che dalla fine degli anni 70 ha creato vere e proprie opere d’arte che hanno rivoluzionato il mondo della fotografia per sempre. Alfred Hitchcock, Queen Elizabeth, 2Pac, Jay Z, Kate Moss, David Bowie, sono solo alcuni dei personaggi con cui Watson ha collaborato nel corso degli anni. Quello che rende la sua fotografia così riconoscibile, è il tratto essenziale, semplice, con il quale ritrae tutti i suoi soggetti.
Siamo stati al Museo della Permanente dove Watson stava lavorando alla preparazione della preview di KAOS, la sua mostra che sarà presentata poi al Palais De Tokyo di Parigi. Estremo perfezionista, il fotografo ha personalmente curato ogni singolo dettaglio della mostra. Dalle musiche (alcune dalla serie Gomorra, ndr.) alla disposizione delle opere.
Come mai decidere di fare una preview a Milano di una mostra che sarà invece a Parigi?
Sì, la mostra completa sarà a Parigi, ma tornerà poi a Milano e aprirà al pubblico. Adesso ci sono solo 40 opere ma al suo ritorno saranno 300.
In quale modo hai deciso le 300 stampe e le 40 per la preview?
Ho cominciato da una selezione di 1000 immagini. Organizzandole in gruppi sono riuscito a eliminarne 100 e poi altre 100. Da quelle 800 la scelta è stata dura ma con calma sono arrivato a 300. Una volta selezionate, per esserne certo ho controllato ancora quelle eliminate. Sceglierne poi 40 per la preview è stato estremamente istintivo
Da dove deriva il titolo Kaos?
Rappresenta semplicemente la frenesia che ha avuto un periodo della mia vita. Mi trovavo alla Couture Week di Parigi e un momento dopo al Cairo per scattare i pezzi di Tutankhamon. In Scozia a fotografare paesaggi, e poi a Hollywood a lavorare al poster di Kill Bill. Quello che fotografavo era caotico. Era moda, erano diamanti, erano paesaggi. Poteva essere tutto. Ecco da dove viene il termine. Rappresenta la mia vita.
Cosa preferisci fotografare di solito?
Se lavoro per due settimane con delle modelle, sono contento se poi devo stare in studio a scattare still life. Mi permette di staccare la mente e di concentrarmi su oggetti inanimati. Di solito cerco di alternare ogni mio lavoro in modo da avere sempre lo stesso piacere per ogni progetto.
Qual è stata la persona con cui hai lavorato, che più ti ha ispirato?
Ce ne sono state diverse. Mi è piaciuto molto lavorare con Jeff Koons. E’ intellettuale, sofisticato e divertente come un bambino. E’ davvero intelligente. Ogni volta che ho la possibilità di passare del tempo con lui, è sempre un’esperienza unica. Un’altra persona che mi è piaciuta particolarmente è stata 2Pac.
David Bowie?
Una persona estremamente premurosa e di un’intelligenza disarmante. Un grande attore. Era capace a interpretare qualsiasi personaggio davanti all’obiettivo. Ho imparato tanto da lui. Un’altra persona che mi ha colpito tanto è stata Marilyn Manson.
Come mai?
Prima di diventare cantante era un mimo. In realtà si chiama Brian, ha creato Marilyn Manson per sfuggire dal mondo reale. L’ha fatto in un modo estremo, fuori dagli schemi. Geniale.
Che cambiamenti hai notato da quando hai iniziato a lavorare come fotografo?
Adesso è tutto molto più spontaneo. In tanti hanno una macchina fotografica e tutti hanno un telefono che scatta fotografie. Mi piace tantissimo l’iPhone. Ti permette di scattare in modo semplice e immediato. Inoltre credo abbia avvicinato molte più persone alla fotografia.
Possiamo quindi dire che la fotografia è diventata mainstream?
Credo che sia ovunque. Per creare una grande fotografia hai comunque bisogno di una reale macchina fotografica e soprattutto, di saperla utilizzare. Vedo tanti fotografi improvvisati ultimamente. Lo fanno sembrare facile come guardare la tv…
E’ cambiato il tuo modo di fotografare?
Sì, ma non nel modo in cui credi. Una macchina fotografica digitale o a pellicola, non fa differenza per me. La digitale è come se fosse un auto sportiva mentre quella a pellicola è come la Rolls Royce. Sono diverse. La cosa interessante secondo me, è come sono cambiati i computer. Adesso puoi manipolare la realtà come un pittore può controllare l’olio su una tela. E’ davvero affascinante.
Siamo stati nel backstage della sfilata Haute Couture di Julien Fournié a Parigi. Lo stilista ha presentato la prossima Primavera-Estate nello storico Oratoire Du Louvre. Sofisticata bellezza mischiata a estrema femminilità, hanno fatto dello stilista un’icona ammirata perfino da Victoria’s Secret, che spesso collabora con lo stilista per le sue sfilate.
Si chiama Lindsey Pelas e con il suo corpo mozzafiato (tutto naturale, ci tiene a precisare, ndr.) sta facendo innamorare tutto il mondo del web. Cresciuta in una fattoria a Ruston, nel Louisiana, Lindsey ha sin da sempre il sogno di fare carriera e di trasferirsi a Los Angeles. Durante il liceo crea una bucket list con i punti: –Trasferirsi a Los Angeles, –Diventare Playmate. Finita la scuola infatti, armata di coraggio, riesce a trasferirsi a LA. Appena arrivata, quasi per caso, viene invitata a una festa nella Playboy Mansion, dove incontra il campione di poker-Instagram Star Dan Bilzerian che rimane estasiato dalla sua bellezza e decide di promuoverla come influencer. Da lì a poco ottiene una parte al fianco di Bruce Willis in Extraction e, indovinate un po’? A maggio 2014 riesce a diventare la covergirl di Playboy. Grazie a Instagram e ai Social Network in generale, Lindsey è sempre più in ascesa e sarà anche la star della seconda stagione di Famously Single, reality molto seguito negli Stati Uniti.
Com’è stato crescere in Louisiana per spostarsi poi in una realtà più grande, come quella di Los Angeles?
Crescere a Ruston è stata un’esperienza unica. Arrivare a Los Angeles con la semplicità che mi è stata insegnata dai miei genitori nel sud, mi ha veramente fatto apprezzare le piccole cose. Adoro vivere in una città così grande dove tutti pensano cose diverse. E’ un’ispirazione continua.
Puoi descrivere Los Angeles a qualcuno che non ci è mai stato? E’ davvero il posto dove i sogni si avverano?
LA è la città dei sognatori. Il clima è praticamente perfetto, il panorama è mozzafiato. Sono le persone che ci vivono però, a renderla così unica. Tutti hanno una storia diversa. Quello che li accomuna è la passione che mettono nelle cose che fanno. E’ bellissimo.
Sei mai stata in Italia?
Purtroppo no! Ma non vedo l’ora di venirci. Tutti dicono che è pazzesca.
Ti definisci un influencer?
Credo che sia inevitabile, sì.
Fai parte del cast della seconda stagione di Famously Single su E!. Come è andata?
Mi frequentavo con un ragazzo inglese. Non era una cosa stabile. Lui era nel cast della prima stagione, ed è stato contattato anche per la seconda. La produzione sapeva del nostro rapporto, che ormai era finito, e ha voluto invitare anche me. Dopo un po’ di tentennamenti, ho deciso di buttarmi. E’ stato surreale parlare dei nostri sentimenti davanti a così tante telecamere.
In che modo credi che i Social Media abbaino cambiato le nostre vite? Quanto invece, hanno cambiato la tua?
La mia l’hanno cambiata completamente! Grazie ai Social ho avuto e sto avendo tutt’ora enormi opportunità che di sicuro non mi sarebbero mai arrivate. Dalla mia vita amorosa al mio lavoro da modella, passando a quello in televisione, ci sono stati cambiamenti abissali. Non nego che ci sono lati negativi, come in ogni cosa, ovviamente. I Social sono una finestra sul mondo e se siamo abili ad usarli, possono davvero cambiarci la vita.
Com’è una tua giornata tipo?
Non esiste! Ogni giorno è diverso per me. Può essere che rimanga dodici ore nel deserto per un servizio fotografico, che giri un video musicale o che faccia riunioni tutto il giorno e che la sera vada a un evento. I’m all over the place.
So che sei molto coinvolta in progetti di beneficienza…
Negli ultimi anni, a Natale ho prestato volontariato aiutando i bambini meno fortunati. L’organizzazione che preferisco è Babes In Tonyland che si occupa tutto l’anno di raccogliere soldi per donare durante le feste natalizie giochi a bambini meno fortunati. Babes In Tonyland ha anche un’altra divisione, che si occupa di finanziare organizzazioni più piccole specializzate nel soccorso di animali indifesi.
E’ di Milano, ma sta conquistando tutto il mondo con i suoi sick beat. Lei è Rossella Blinded: professione deejay o, come direbbe Fatty Wap: trap queen. E’ proprio così che si descrivere al meglio Rossella. Definita uno dei prodotti più interessanti in uscita dall’Italia, la deejay è anche speaker radiofonica. La potete sentire su Bass Island Radio, la radio Drum n Bass per eccellenza. Molti sono stati gli ospiti con la quale Rossella ha avuto a che fare, tra cui Flux Pavillion e Borgore. Reduce dal suo primo tour americano abbiamo sbirciato dentro la sua tour bag, ecco i suoi musi have!
Adidas Originals SST Track Metal Jacket Adoro Adidas da una vita e questa track jacket è perfetta sia da usare quando sto suonando o facendo il soundcheck nei locali più freddi oppure come una giacca stilosa quando esco la sera o durante il giorno!
Dolly Noire Black Beanie Pom Black
Ho sempre freddo (sul serio… tranne ad agosto diciamo…) e raramente riesco ad uscire fuori di casa senza un beanie. Quello che uso e amo di più in questo periodo è quello nero di Dolly Noire. Super caldo e super in tono con il mio stile street.
Nike Air Zoom Pegasus Black/Gold
Amo sentirmi comoda quando cammino o quando sono in tour tra aerei e treni da prendere. Anche quando suono cerco questo comfort, salto sempre, in continuazione e le Nike Pegasus sono tra le mie sneakers preferite. Potrei saltare per ore con queste ai piedi e le uso molto spesso anche in palestra!
Puma Net Top Sweater Black
Questo top della puma unisce il comfort ad un stile street wear pazzesco! Quando esco lo uso con una gonna, solitamente con quelle al ginocchio, o con i leggins quando suono. Super fresh in entrambi i casi.
Sapopa Emana Leggins Black and Poppy Bra Black. Questi capi per me sono essenziali per due ragioni. Primo per dare un tocco femminile ai miei outfit quando suono. Secondo per tutte le volte che trovo una palestra in hotel e posso approfittarne per fare yoga o allenarmi, il materiale di cui sono fatti è unico e ha una flessibilità e leggerezza mai vista!
È terminata ieri la settimana dell’Haute Couture di Parigi, durante la quale si è presentata la Spring Summer 2017. Dalle passerelle, attraverso i vari stili dei brand, è emerso un filone comune: stupire. Stupire con estrema eleganza, come ha saputo fare Alexis Mabille, Valentino e Galia Lahav. Stupire con opulenza come è stato per Guo Pei o, andare completamente contro tendenza presentando una collezione vera, sincera, come ha fatto Demna Gbasalia per VETEMENTS. Ecco i dodici migliori look secondo The Eyes Fashion.
Ho sempre ammirato i cantautori italiani che, a mio parere, sono, e soprattutto sono stati, un vanto di questo Paese. Ci sono stati sicuramente tempi migliori (vogliamo parlare dei ’70?) per questo genere di musica, eppure qualche raro esempio emerge ancora, e proprio per questo è particolarmente interessante. Uno fra tutti? I Baustelle, il loro nuovo disco: L’amore e la violenza, vira tra pure ispirazioni pop alla Viola Valentino a veri e propri racconti di guerra. L’ album, della band di Montepulciano, è un disco cinico, malinconico, sincero e musicalmente maturo. Arriva dopo una pausa, durante la quale Francesco (Bianconi – voce, chitarra e tastiere, ndr.) ha pubblicato la sua ultima opera letteraria La Resurrezione Della Carne , mentre Rachele (Bastreghi – voce, tastiere e percussioni ,ndr.) ha dato vita al suo primo progetto da solista intitolato Marie. Le tracce must listen sono: Basso e batteria, L’era dell’acquario, Il Vangelo di Giovanni.
Come nasce il titolo dell’album?
Generalmente scriviamo prima la musica, passando poi a scrivere i testi. Da un paio di dischi a questa parte io ho invece puntualmente il blocco dello scrittore. Mi trovo davanti queste ”caselle” da riempire e penso di avere già detto tutto nei dischi precedenti. Quindi mi blocco. Uno stratagemma per evitare questo, è, banalmente, darsi dei temi sulla quale lavorare. Per ricercare i temi del nuovo disco, ho dato un’occhiata al mondo, e l’ho trovato in guerra. Quindi, parte dall’idea di guerra. Una guerra diversa da quella a cui siamo abituati. Che entra nell’intimo. L’idea è quindi stata quella di pensare a delle canzoni d’amore in un ipotetico tempo di guerra. Ecco quindi il titolo L’amore e la violenza.
Quali sono state le ispirazioni principali durante la lavorazione?
L’ispirazione è arrivata da Jaques Prévert e da altri poeti autori di liriche d’amore in un contesto di guerra.
In che modo avete lavorato sulle produzioni? C’è un grande distacco dal disco precedente. Come è andata?
C’è un utilizzo, oserei dire dogmatico, di strumenti di una volta. Come diceva Umberto Eco, a volte la storia cammina all’indietro. Ci sono delle tecnologie che sono state inventate nel 1942, che risultano all’avanguardia ancora oggi. Noi crediamo che una canzone sia fatta dalla melodia, dagli accordi, dall’armonia ma anche dal suono e dal timbro con cui viene suonata. Che cambia totalmente in base allo strumento con la quale la suoni. Durante la lavorazione abbiamo infatti giocato tanto con i sintetizzatori analogici, inventati decine di anni fa ed estremamente complessi nell’utilizzo. Che non sono però tutt’ora comparabili alla loro versione tecnologica. Due suoni estremamente diversi.
Il singolo di lancio dell’album, rende omaggio a un personaggio pop iconico. Che cosa simboleggia nella canzone, il personaggio di Amanda Lear?
La canzone è cervellotica. Volendo, Amanda Lear non c’entra niente. Parla di una storia d’amore tra un uomo e una donna. Stanno insieme. Si amano. Lei però continua a ripetersi che niente dura per sempre. Preferisce bruciare subito, piuttosto che durare in eterno. Lui prende alla lettera questa sua filosofia spicciola, e la tradisce con la prima che passa, in sostanza. Questo ”plot” che ti ho raccontato, nella canzone viene raccontato con un doppio flashback, comincia con lui che si rivolge a questo amore. Poi, ti facciamo sapere nel pre ritornello dove si trova lei in questo momento. Sembra quindi che sia lei la cattiva, in realtà, nel secondo flashback vediamo che è lui l’infedele. Amanda Lear c’entra perché nel mio racconto, lei fa sempre la similitudine del LP: ”dobbiamo essere come un LP di Amanda Lear, il lato A e il lato B.
Partirete anche in tour che, per la seconda volta sarà nei teatri. Come mai?
Non è stata una scelta facile. Mentre con Fantasma (l’album precedente, ndr.) è stata una scelta naturale, essendo il disco suonato con un’orchestra. Questo no. Il teatro però è una dimensione che ci piace. Stiamo preparando un live che inizia presto, e finisce presto, in modo da catturare il pubblico. Speriamo che piaccia a tutti.
Siamo stati insieme alla deejay (e nostra ex covergirl) Barbara Alesini alla data zero di ESSENZA, l’evento-esperienza che punta il coinvolgimento di tutti i sensi (dal tatto a, soprattutto, l’udito) come non li avete mai utilizzati. Ecco il nostro racconto attraverso l’ombra di Barbara.
Ieri sera a Milano si è svolto uno dei concerti più attesi di tutta la stagione: quello dei vent’anni di carriera dei Placebo.
Live celebrativo per festeggiare ”il loro compleanno” come Brian Molko e soci hanno definito più volte durante la serata, è stato uno show con la quale il titolo del loro ultimo disco, un best of, si sposa benissimo: ”A Place For Us To Dream”, e così è stato.
Lo show è durato oltre due ore, e la scaletta è stata un viaggio che ha fatto sognare i numerosi fan. La setlist, iniziata con ”Pure Morning” e finita con la cover di Kate Bush ”Running Up That Hill”, ha anche saputo sorprendere con canzoni come ”Space Monkey” e ”Without You I’m Nothing” che la band non eseguiva dal vivo da tempo, ma c’è stato tempo anche per le loro hit più famose come ”Special K” e ”Bitter End”.
Il concerto è stato uno show fatto bene, quasi impeccabile, come non se ne vedevano da tempo. Si vede che la band non ha perso la passione, così come non la hanno persa i fan che hanno cantato dalla prima all’ultima parola.
La promessa di Molko è stata quella di tornare con il prossimo tour, noi ci speriamo.