GUSTAVO FRING È A MILANO!

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Dopo Austin, Texas durante il SXSW, Los Pollos Hermanos ha aperto un “ristorante” anche a Milano e Roma. Un nuovo franchising? No, il Fast Food di Breaking Bad, teatro di molte iconiche scene di una delle serie più amate degli ultimi anni, ha aperto i battenti per due giorni nelle città italiane.

Il locale, che nella serie era gestito da Guatavo Fring – personaggio interpretato da Giancarlo Esposito – a Milano si trova in Piazza 24 Maggio e fino a sabato 13/5 servirà veri Burritos, pollo fritto e specialità messicane. Così per dieci minuti sarà come essere ad Albuquerque insieme a Walter White (protagonista della serie, ndr.).

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L’esperimento geniale è stato ideato da Netflix che per promuovere l’ingresso del personaggio di Esposito nella terza stagione di Better Call Saul spin off di Breaking Bad, sta seminando in giro per il mondo temporanee copie esatte del fast food diventato celebre grazie alla serie.

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A Milano la fila è cresciuta sopra ogni aspettativa, confermando così il mito che ha creato Breaking Bad.

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GRETA SCARANO – HER

di Federico LeddaCopertina Orizzontale

Eccoci, non siamo scomparsi. The Eyes Fashion esiste ancora.
La scelta di uscire con un ritardo di metà mese, è stata dettata dal fatto che in copertina ci trovate lei: Greta Scarano. Attrice di un talento disarmante, sta ricevendo sempre più consensi da parte del cinema italiano. Vincitrice di un nastro d’argento come miglior attrice non protagonista in Suburra, Scarano sta vivendo un periodo estremamente occupato. Da oltre un anno al cinema, prima con Suburra, poi con La Verità Sta In Cielo e adesso con Smetto Quando Voglio – Masterclass, abbiamo incontrato Greta in una giornata di pausa tra un progetto e l’altro. Estremamente simpatica e dolce (al cinema fa sempre ruoli forti, ndr.) ci ha raccontato com’è la sua vita e cosa si prova a essere sempre più richiesta…

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Hai sempre seguito, sin da giovanissima, la tua passione per la recitazione, che ti ha portato perfino a studiare in Alabama. Quali sono state le differenze maggiori che hai trovato, lavorando nel teatro italiano e quello americano?
Ho vissuto in Alabama all’età di 16 anni. Lì ho frequentato il teatro nell’ambito dell’high school, portando in scena due spettacoli. Posso quindi più che altro parlare della mia esperienza scolastica, che è stata intensa. La principale differenza con l’Italia è che il teatro e la recitazione sono materie scolastiche e come tali vengono trattate. Naturalmente sono materie molto amate perché gli studenti mettono in scena spettacoli che poi vengono proposti in concorsi statali, competendo con altre scuole.  È stimolante far parte di una realtà che mette l’arte, la recitazione e il teatro al centro della vita degli studenti. Sarebbe bello se potesse essere così anche in Italia: fornire una preparazione artistica agli studenti delle scuole dell’obbligo stimolandone la creatività e la sensibilità, permetterebbe di formare professionisti del nostro settore molto presto. Mi capita spesso di essere contattata da ragazzi che vorrebbero fare gli attori o i registi, ma non sanno da dove cominciare.

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Non tutti lo sanno, ma hai anche studiato batteria e percussioni. Quanto la musica influisce nella vita?
La musica cambia sempre tutto. Duramente l’adolescenza, la mia vita era fatta di cd e dvd. Li collezionavo. Mia madre mi diceva che un giorno o l’altro sarei andata in giro vestita di album perché non compravo altro. Recentemente ho lavorato con Stefano Mordini, abbiamo girato un film insieme. Stefano porta la musica sul set e chiede a tutti di lasciarsene ispirare, perché ogni scena ha una sua temperatura, un suo ritmo, proprio come le canzoni. E le scene prendono subito vita. Il set è coinvolto in questo nuovo processo creativo che si nutre dell’energia di tutti.
Che musica ascolti? Cosa c’è nelle tue playlist?
Mumford&Sons, First Aid Kit, M83, Janis Joplin, Fabrizio De André, Lady Gaga, The Black Eyed peas, Kanye West, Lucio Dalla e mille altri.foto-67
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La tua strada nel cinema è solo all’inizio, ma hai già interpretato importanti ruoli. Qual è il processo che ti porta dentro un personaggio? Quanta Greta c’è dentro i tuoi personaggi?
Prima leggo la sceneggiatura, cerco di capire che film è e che personaggi racconta. Cerco di capire gli archi emotivi dei personaggi, imparo le battute a memoria, le provo da sola. Poi chiedo al regista, mi confronto con tutti i reparti che mi aiutano nella creazione del personaggio. Lavoro quindi a stretto contatto con il costumista, il truccatore, il parrucchiere, cerco riferimenti, non faccio che pensare a come sarà il mio personaggio. Poi cerco di dimenticare tutto, arrivo sul set e lavoro sull’istinto, sulla ricerca di qualcosa a cui non avevo pensato prima, provo a farmi sorprendere dai miei colleghi attori, mi cibo di tutto quello che mi circonda e uso tutto quello che mi viene messo a disposizione. Di solito, più o meno, faccio così. C’è tanto di me nei personaggi che interpreto, sarebbe impossibile evitarlo.

Qual è il ruolo che hai interpretato alla quale sei più affezionata?
Sono affezionata a tutti i personaggi che ho interpretato, ma ad ognuno in modo diverso.

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Cosa pensi del cinema italiano? Quali sono i registi che apprezzi di più?
Vorrei vedere le sale piene di pubblico, vorrei vedere film ambiziosi e coraggiosi. Ripongo molta fiducia nelle nuove generazioni. Amo Garrone, Sorrentino e Mordini perché sono dei visionari. Amo Veronesi che adora i suoi personaggi e si dedica con passione agli attori che sceglie.

Avendo studiato tra gli Stati Uniti e l’Italia, quali sono le differenze maggiori che adesso, da professionista, noti tra il cinema italiano e quello a stelle e strisce?
Il cinema americano è un’industria che genera enormi ricavi. C’è uno star system che smuove le masse. Noi abbiamo vissuto di rendita per molti anni, poi abbiamo iniziato a deludere e oggi paghiamo il prezzo della sfiducia del pubblico nei confronti del cinema italiano. Ma c’è la voglia di riconquistarla. Io, da parte mia, non voglio mai deludere chi viene al cinema a vedere un film dove ho lavorato. Dobbiamo ricucire il rapporto con gli spettatori e dobbiamo ricominciare ad investire seriamente nell’industria cinematografica raddrizzando una serie di storture che la bloccano. Dobbiamo stimolare le nuove generazioni a nutrirsi di cinema.

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Sei nata e cresciuta a Roma, quali sono i tre posti che più ti piace frequentare quando sei là?

Adoro le ville di Roma, villa Pamphili su tutte. Amo mangiare in un buon ristorante e fare lunghe passeggiate notturne, Roma è più facile di sera. Amo andare a vedere un film al nuovo Sacher.
Su cosa stai lavorando in questo momento?
Ho appena di finito di girare un film per la TV diretto da Stefano Mordini su Emanuela Loi, la prima donna poliziotto uccisa dalla mafia. Emanuela faceva parte della scorta di Borsellino ed è morta nella strage di via d’Amelio. Uscirà su Canale 5 in autunno. Non vedo l’ora. A maggio dovrebbe uscire una serie che ho girato per Rai 3, ma non posso ancora parlarne.foto-39

MAKE THE EYES FASHION GREAT AGAIN!

Copia di copertina 2

È tempo di cambiare musica.
E’ il proposito principale di The Eyes Fashion per il nuovo anno. Siamo cresciuti. Sono cresciute le persone che credono in questo progetto, e sono cresciuti anche i lettori. Per numero ed età.

La scelta di iniziare il 2017 senza soggetti in copertina, è una decisione coraggiosa, ma voluta con determinazione. Una scelta di evoluzione.

Lo strillo “Make The Eyes Fashion great again“, fa infatti il verso al più noto slogan di campagna elettorale utilizzato dal, purtroppo, nuovo presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump. Gli ultimi mesi dello scorso anno non sono stati facili per il mondo intero che, oltre alla Trump-presidenza, ha visto spegnersi tante icone musicali che da sempre hanno influenzato l’espressione artistica del magazine e, più nel profondo,  di tutti .

Serviva quindi una nuova rinascita: a new beginning tanto per stare in tema.

Per rendere The Eyes Fashion great again, ci impegneremo tanto, e tanti saranno i cambiamenti.

Aspettatevi tutto. Non aspettatevi niente.

Federico Ledda

Copia di PROVA COVER-2

JON DONAHUE from INFERNO to THE EYES FASHION

di Federico Ledda

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Riconosciuto come l’uomo che fa tutto, Jon Donahue eclettico attore americano, sta veramente facendo tutto! Diviso tra piccolo e grande schermo dove è stato diretto da leggende quali Steven Spielberg e Ron Howard, Donahue sarà presente nel prossimo episodio della saga de ”Il Codice da Vinci” intitolato ”INFERNO” nelle sale dal 13 ottobre. Lo scorso inverno ha anche partecipato alla lavorazione de ”Il Ponte delle Spie”.
Mentre si è alla ricerca di un biglietto dell’ultimo minuto per la premiere di ”Inferno” che avverrà nel capoluogo toscano, location iconica dove il film è stato girato, abbiamo incontrato Jon che ci ha raccontato dei suoi ultimi lavori e di quanto ami l’Italia e l’Europa.

Sei un fan degli episodi passati della saga: ”Il Codice da Vinci” e ”Angeli e Demoni”?
Certo che sì! Sono un fan anche dei capelli di Tom (Hanks).

jon-donahue-054-rtPuoi raccontarci cosa succederà in ”Inferno”?
Dan Brown ha davvero messo tutto se stesso in questo film! Robert Langdon (Tom Hanks) si sveglia in un ospedale italiano con l’amnesia. Facendo squadra con la dottoressa Sienna Brooks (Felicity Jones) partono per un giro intorno all’Europa con lo scopo di recuperare i suoi ricordi persi e svelare ancora una volta i misteri che si annidano intorno all’opera immortale di Dante. E’ un film colmo di colpi di scena capace di tenere il pubblico incollato davanti allo schermo, da vedere!

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Jon sul set

E sul tuo personaggio Richard Savage?
Richard è l’assistente del Dr. Elisabet Sinskey (Sidse Babett Knudsen), che è a capo della World Health Organization. Il mio personaggio è una persona molto seria, con un esistenza frivola, quasi senza senso. Nella vita di tutti i giorni sono esattamente l’opposto, quindi interpretarlo è stato una sfida importante e anche eccitante per me.

Girato tra Venezia, Firenze e Budapest, hai avuto tempo per esplorare le città?
Certo! Non dimenticarti anche Istambul! Oltre a visitare le città ho anche provato la cucina di ogni posto. Fortunatamente il mio personaggio corre tantissimo, quindi quello che mangiavo lo consumavo davvero in fretta! Le avventure di Robert Langdon lo portano in tutta Europa e fortunatamente per chi ha lavorato al film è stata un esperienza mozzafiato che ci ha portato a vedere posti incredibili e non il solito green screen di un qualche studio a Hollywood!

Com’è stato lavorare con Tom Hanks e Felicity Jones?
Avevo già lavorato un paio di volte con Tom e ogni volta è un’esperienza che mi fa imparare sempre moltissimo. Tom è veramente un grande attore e ogni volta che siamo insieme sul set, la considero come una lezione di recitazione gratis! Tra un ciak e l’altro chiacchieriamo e troviamo tempo per una risata…E’ davvero una bella persona! Con Felicity era invece la prima volta che ci lavoravo ed è proprio un tesoro. Nel ruolo di Sienna Brooks è veramente perfetta, sono sicuro che tutti l’ameranno! Non vedo l’ora di vederla anche in ”Rogue One”, sono un grandissimo fan di ”Star Wars”! Sfortunatamente mentre giravamo ”Inferno” non mi ha spolverato nulla…

Hai avuto modo di stringere amicizie sul set?
Quando finivamo le riprese capitava quasi ogni giorno di uscire con Tom. Andavamo a mangiare un boccone o a vedere un film…E’ divertente discutere di cinema con lui! Quando siamo insieme il divertimento è assicurato. Ho davvero dei ricordi fantastici durante le riprese di ‘Inferno” dell’anno scorso…Parlando con Dan Brown, gli ho buttato là l’idea di considerare uno spin-off incentrato sul mio personaggio Richard Savage (ride ndr) speriamo ci pensi sù!

Quali sono  tuoi prossimi progetti? 
Ci sono un paio di progetti alla quale sto lavorando adesso. Non voglio anticipare nulla un po’ per scaramanzia e un po’ perché non posso proprio per contratto (ride ndr). Aspettate e vedrete, ne vale la pena!

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”Il Ponte delle Spie”

SAVE THE DATE: 20/11/15 – THE EYES FASHION PARTY TALES CHAPTER ONE: 90’S HIP HOP SCENE

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THE EYES FASHION PARTY TALES: un divertente viaggio attraverso eventi a tema, per rivivere alcuni periodi storici che hanno particolarmente caratterizzato la moda e la musica così come la conosciamo oggi.

CHAPTER ONE: 90’s Hip Hop scene.
Preparati ad indossare la tua salopette di jeans, la collana d’oro finto che pesa meno di un grammo, lo snapback,la felpa della Champion e le Buffalo ai piedi: il 20 si ritorna indietro nel tempo.

Music selecta by:

THE WATZMANNS (Vittoria Hyde and Federico Ledda)

DJ EROS

ZIMEN

DRESS CODE: 90’s HIP HOP PARTY ANIMALS

FREE ENTRY

WHEN IN ROME… #4 – WALKING AROUND

di Sara Bianchi
foto di Sara Bianchi
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“Come è iniziata la tua carriera? Il momento in cui hai capito di avercela fatta?”

L’ATTORE FETICCIO

FABIO DE LUIGI, Roma -Cinecittà-

“Allora…la mia carriera é iniziata nell’ormai lontanissimo 1990, stavo studiando nell’Accademia delle Belle Arti a Bologna e ho cominciato iscrivendomi quasi per scherzo ad un concorso per giovani comici emergenti”

“Per quanto riguarda il momento in cui…forse oggi…ahahahah…il giorno in cui ho capito di aver fatto la scelta giusta, beh alla fine era quello che volevo fare da quando avevo tipo tre anni per cui quella fortuna lí l’ho avuta e finché non se ne accorgono vado avanti!”

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LA FETICISTA

CHIARA FRANCINI, Roma -Cinecittà-

“Oddio…la mia carriera é iniziata al teatro della Limonaia di Sesto fiorentino quando ho iniziato il primo anno del corso dell’Accademia. Per quanto mi riguarda penso tutti i giorni di aver fatto la scelta giusta, sono felice, certo é un lavoro faticoso ma sono veramente molto felice, però posso dirti che non c’é un giorno in particolare perché penso di dover fare ancora molta molta strada…”

IL POETA ROMANO

RICKY MEMPHIS, Roma -Cinecittà-

“Come devo risponne?”

“Tu parla, io registro e poi trascrivo!”

“Ok…allora la mia carriera è iniziata fine ’89 inizio ’90 con la pubblicazione di un articolo ed un servizio fotografico che mi riguardava sul mensile dell’epoca che era King. Me l’avevano fatto perché leggevo delle poesie che scrivevo nei locali notturni di Roma…da lì Maurizio Costanzo ha letto l’articolo, si é incuriosito e mi ha fatto chiamare. Sono stato in trasmissione, la trasmissione la stavano seguendo in televisione Tognazzi e Simona Izzo che stavano per girare un film, io lí ho espresso il desiderio di fare l’attore, mi hanno chiamato, ho fatto il provino e cosí ho fatto il primo film.Tutti i giorni mi rendo conto di aver fatto la scelta giusta, tutte le mattine in cui mi alzo e vado sul set a giocà e a divertimme…”

 

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NERD ALERT: DONNIE DARKO

di Luca Rivolta
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Ben ritrovati al solito appuntamento con lo schermo cinematografò [cit.]. Oggi abbiamo deciso di soffermarci su qualcosa di più nerd, nonostante rimanga qualcosa di mergaextrasuper cult. Ah, da nerd veri, non quei nerd che di nerd hanno solo la scritta sulla maglia, e poi scopano più di Mick Jagger. Direi che è un film più che altro adatto a quelli che hanno assidui rapporti con uno schermo. Che poi sia diventato fenomeno di massa e in quanto tale venga abusato da cani e porci è un altro discorso.

Innanzitutto la pellicola è stata scritta e diretta da un certo Richard Kelly (non meravigliateli di non averlo mai sentito, è tipo un profeta di qualche altro universo parallelo, giusto per restare in tema, sceso sulla terra per dirigere questo film e poi scomparire) nel 2001, ma per ovvi motivi in Italia è stato proiettato per la prima volta nel 2004 (che bello essere sempre all’avanguardia).

Tra gli attori non figurano sono nomi particolari, o per lo meno all’epoca dell’uscita nessuno era un attore più di tanto affermato, forse solo Drew Berrymore e Patrick Swayze. Infatti il film è stato girato con un budget veramente basso, primo dei motivi che lo rendono un capolavoro.

Il secondo motivo, come ben potete immaginare, è la colonna sonora. È incredibile come mi stupisca ogni volta del ruolo che riveste la musica nei film. Fa davvero da sola metà del lavoro. All’interno della pellicola si possono trovare pezzi come Head Over Heels dei Tears for Fears, Love Will Tear Us Apart dei Joy Division e Mad World reinterpretata da Gary Jules. Davvero, basterebbero queste tre canzoni a concludere qua l’articolo (sì è un articolo).

Il terzo motivo è che il film non ha un conclusione certa, ma è aperta a diverse interpretazioni. E, cosa che aumenta esponenzialmente il valore, per formulare un’ipotesi devi avere ottime conoscenze in robacce come fisica quantistica, wamhole, universi paralleli, esoterismo, filosofia e quant’altro (per questo all’inizio parlavo di nerd). Oppure invece che formulare ipotesi potete cercare in internet. Penso vada per la maggiore questa soluzione. In ogni caso quello che ci tenevo a specificare è che il film non è fantascienza pura. O meglio, rimane una storia assolutamente inventata, ma ha un riscontro importante sulle attuali teorie scientifiche sul continuo spazio tempo. Basti pensare che è così difficile da interpretare che gli autori hanno dovuto pubblicare qualche estratto inventato dal pseudobiblium “La filosofia dei viaggi nel tempo”, più volte citato all’interno del film

Prima di andare a parlare dell’ultimo motivo lasciatemi spiegare, evitando come al solito il più possibile spoiler e anticipazioni nel caso siate così babbi da non averlo ancora visto, un minimo della trama. Praticamente, il classico adolescente introverso, con un accenno di schizofrenia, va a scuola, viene bullato, se la fa con una ragazzetta, je cade un motore di un aereo in camera mentre lui è fuori o forse no, qualcuno muore o forse no, si torna indietro nel tempo o forse ci si trasferisce semplicemente in un universo parallelo. Più o meno è questo quello che penserete una volta vista la conclusione. La cosa veramente assurda, e che più mi ha colpito è il contesto in cui la storia si svolge: è facile fare un film dove si parla di viaggi nel tempo quando sei su una navicella e stai entrando in un buco nero e tutto il film è ambientato nello spazio e parla di viaggi interstellari (ogni riferimento è puramente casuale. Ovviamente non mi sto riferendo a 2001: Odissea nello spazio, perchè era il 68, e mentre la gente era fuori a spaccare cose Kubrick girava scene che a 50 anni di distanza Nolan ha riproposto paro paro. Il precedente riferimento non è più casuale.). La cosa incredibile è averla applicata in un mondo così semplice e banale come questo: il classico teenager americano, con la classica fottuta camicia sopra la maglietta e i cazzo di armadietti in corridoio a scuola. È come se Richard Kelly fosse riuscito a tirare fuori la Tour Eiffel da una cannuccia. Inoltre, all’interno del film vi è una retrosprettiva assurda non solo su tutto il discorso già accennato dello spazio-tempo, ma anche sulla psicologia che si cela dietro il protagonista. L’altra “aspetto morale” degno di nota è quello filosofico: non quello legato direttamente allo spazio-tempo, ma più quello connesso alla morte ed alla consapevolezza di essa. Perché Donnie Darko, è si un film che parla delle problematiche giovanili, del primo bacio, e delle solite cazzate, ma lo fa in un modo così cupo e sinistro tale da far si che tutto passi in secondo piano rispetto al volto vero e reale di tutta la faccenda: la morte e l’esistenza. E non posso spiegarmi meglio senza andare a racconare il film, ma vi assicuro che sono pensieri davvero maturi e profondi, e per nulla banali.

Quindi per quanto mi riguarda, se nel macinino butti dentro Joy Division, camicie sopra le magliette, esistenza umana e spazio-tempo, esce tipo una fusione tra Emily Ratajkowski e Sasha Grey.

Unica nota controversa: se come me fate la doccia con la porta del bagno chiusa quando siete in casa da soli perché avete paura che i mostri entrino senza farsi beccare mentre vi sciacquate lo shampoo, il coniglio con la maschera schifosa che ogni tanto compare in qualche angolo potrebbe farvi cagare addosso non poco.

 

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A PROPOSITO DI DAVIS

di Luca Rivolta APDD_manifesto_30c64dae2547320242320749c05e63fc

Bubu-settete. Eccoci tornati alle origini, al solito (e banale) appuntamento con un film che spacca. Questa volta davvero, non come le ultime due volte, nelle quali abbiamo parlato di cose un po’ inusuali per le nostre pagine. Oggi parleremo di A proposito di Davis, un film del 2013, diretto dai fratelli Coen. Se dovessimo inquadrarlo penso si avvicini al genere “drammatica commedia musicale”. Esatto, un film dei Coen, punto.

La premessa che va fatta è che spacca perché è dei fratelli Coen. Dai, sul serio, come può uscire qualcosa di deludente da quella testa? Una testa in due corpi, spacca per forza.

Sempre cercando di spoilerare il meno possibile, la trama è piuttosto semplice (“il film non aveva una trama vera e propria, e ciò ci portò a riflettere su questo punto, e fu per questo che inserimmo il gatto”): l’ambientazione è quella di una New York agli inizi dei ‘60, più precisamente il Greenwich Village, la capitale del rock, patria di artisti del calibro di Bob Dylan, Andy Wharol e Lou Reed. Come ben sapete quelli erano gli anni del boom folk, gli anni in cui Dylan incise Highway 61 diventando popolare in tutto il mondo. Ma questa, è solo la viglia. Il mondo, seppur per poco, non è ancora pronto ad accettare la musica di Llewyn Davis. È questa è la sua storia, o meglio, è una delle settimane della sua vita, ma l’emblema di essa, e un po’ anche l’emblema del visione dei Coen (chissà perché in questo periodo la parola emblema va così di moda). La storia presenta la temporalità ciclica e breve tipica dei Coen. Il film come inizia finisce. Llewyn, come nasce muore. Povero, così pieno e vero nelle sue parole, ma vuoto nella conclusione di ogni cosa. È la storia di un musicista, uno di quelli veri e completi, a cui non niente funziona, anche se per un momento sembra tutto girare per il verso giusto. Incide un disco di successo? Il suo collega si suicida e lui non ne guadagna quasi nulla. Il gatto delle persone che lo ospitano scappa per colpa sua ma poi riesce a ritrovarlo investendolo poco dopo. Un famoso produttore gli concede un’audizione? Al termine della emozionante ballata riesce solamente a sentirsi dire non si fanno soldi con quella roba”. Prova a fuggire da tutto e tutti imbarcandosi in marina? Perde il biglietto pagato con gli ultimi risparmi.

Il tutto immerso in una cinicissima atmosfera Coeniana, quasi al limite tra il comico e il grottesco. È una vita di stenti, ed l messaggio è uno dei più nichilisti della storia: Llewyn è perfettamente consapevole che lui sia la causa di tutte le sue sventure, ma è altrettanto consapevole che qualsiasi cosa faccia risulta del tutto inutile, che non esiste nulla, che l’esistenza stessa non ha un senso vero e proprio. Che fa schifo tutto, e basta, sia che tu ti dia da fare, sia che passi il tempo sul divano. Così inizia il film, e così finisce: in un quasi sconosciuto locale del Village, a suonare per poche mance. Nellultima scena del film, si intravede un personaggio che si esibisce dopo di lui con una canzone intitolata Farewell. Beh, la sua storia sapete com’è andata a finire.

Certo l’ambientazione in cui è inserita eleva la storia moltissimo, più che altro per la coerenza con cui si sposa col protagonista. Quale personaggio se non un musicista folk del Village può avere tali vicissitudini? È un matrimonio perfetto. Ma penso che l’unico matrimonio che rende perfetto il film sia quello (inconsapevole) tra Joel ed Ethan Coen. Nessun altro sarebbe riuscito a partorire qualcosa che assomigliasse anche lontanamente a tutto questo. Sarebbe rimasta sicuramente una bella pellicola musicale, ma nient’altro.

Da apprezzare senz’altro le citazioni a “Colazione da Tiffany” (uscito appunto nel 61), e le prove attoriali dei vari personaggi, compresa quella di Justin Timberlake, che per quanto mi riguarda rimane la persona che riesco meno a giudicare del mondo. Davvero, non riesco a capire se sia un fenomeno o un coglione.

E banalmente, non passa inosservata la colonna sonora, che riesce a soddisfare le comunque alte aspettative del film: non è facile inserire una colonna sonora originale in un film che parla di una della scene musicali più importanti di tutta la storia.

Il film riesce in tutto e per tutto, e spacca, perché riesce a essere un’opera d’arte, qualcosa che critica senza risultare una polemica, una ballata sull’amore, sull’arte, sull’industria, sul mondo e forse anche sui loro stesso prodotto.

Mi sa che se una sera dovessi uscire a bere con loro, mi sveglierei la mattina dopo nel loro letto.

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WHEN IN ROME… #2 – IL COMICO CANTERINO

Paolo -Teatro Vittoria- “L'amore è un cane blu” - Roma
di Sara Banchi

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“Quando è iniziata la tua carriera da attore?”

“Io… allora… ho fatto alcuni mestieri prima di questo. Non pensavo di cadere in questo mestiere anche se sono di famiglia d’arte perché mio nonno e mia zia recitavano. Ho fatto un po’ di lavoretti durante l’università, poi ho trovato lavoro come aiutante in una compagnia di marionettisti che però lavoravano anche con gli attori. Poi sono partito militare e tornato in quella compagnia. In realtà all’inizio la presi come un modo di essere autonomo poi però una cosa tira l’altra…mi sono ritrovato sul palco ed ho capito quasi subito che questa era la mia vita,il mio mestiere.”

“C’è stato un giorno particolare che ti ha fatto capire di aver fatto la scelta giusta?”

“…di giorni particolari in questo mestiere ce ne sono tanti…perché, soprattutto come avviene con il nostro modo di lavorare, ossia che non facciamo mai una replica, accade qualcosa di diverso ogni sera. Anche quando giriamo in video improvvisiamo, nell’arco della carriera ne succedono di ogni quindi non c’è una giornata particolare. Posso però dire che ogni giorno è come se fosse il primo, questa é una cosa che ho imparato subito perché questo è un mestiere in cui, se hai la passione per farlo, ti metti in gioco ogni volta…ogni sera é una sfida ed ogni sera ti giochi la giornata che hai trascorso allora tutti i giorni diventano importanti…poi ci sono giorni un po’ diversi perché questo mestiere ti costringe a lavorare anche quando in altri mestieri si resta a casa invece qui devi andare sul palco lo stesso.”

BREAKING BAD

di Luca Rivolta

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Prima di iniziare concedetemi una non molto breve premessa. Non sono un divoratore di serie TV, anzi le reputo cosette per riempire inutile tempo di gente inutile, proprio un livello sotto il cinema (forse anche perché lo sono effettivamente). Insomma, nella mia vita non ho quasi mai seguito niente che prevedesse più di 3 episodi, fatta esclusione per Simpson, Griffin e South Park. E anche The Boondocks, che spaccava tantissimo. E in realtà mi son guardato anche tutto Chuck, ma rimane ‘na merda. In ogni caso, il punto è che Breaking Bad esula da qualsiasi cosa sia esistita fino ad oggi. Per questo mi sembra quantomeno corretto dedicargli questo spazio. Non intendo recensire tutta la serie, cercherò solo di dare una spiegazione dell’enorme successo che ha avuto. Io stesso ho iniziato a guardarlo nonostante la mia pigrizia compulsiva mista ad una tipica inettitudine Sveviana, solo per aver modo di poter pronunciare con orgoglio “io l’ho vista tutta, dovete smetterla di elevare a capolavoro qualsiasi cosa fornisca elementi come droga sesso violenza morti”. E così, complice anche i 6 mesi di Infinity gratuiti ottenuti grazie alla Vodafone (marchette), ho deciso di sedermi sulla poltrona e cliccare play. E devo dire che non è stato amore a prima vista. Certo fin da subito si rimane sorpresi della cura dei dettagli, piuttosto che del realismo delle situazioni, dai dialoghi ecc ecc. Sta di fatto che arrivo alla seconda stagione e ancora niente, guardo la terza e nulla, ma alla quarta cambia sbam, un’illuminazione che neanche il Dalai Lama sa cosa significa; e non è stata la quarta stagione in se, perché se, adesso, ripenso alla prima non ha nulla in meno rispetto all’ultima, è solo che serve un “tempo di visione” piuttosto lungo per comprendere bene il tutto. Alla fine dell’ultimo episodio son riuscito a farmi un quadro della situazione: BB piace alla maggior parte della gente perché “oh ma che figo due cuochi di meta vestiti con tute gialle che bevono birra in bottiglia seduti sul divano lui da professore a cuoco molto cattivo ma son morti tutti oh yeeeeh”, ma oltre a questo, per quanto mi riguarda, è un capolavoro. Il primo aggettivo che mi viene in mente è disturbante. È eccessivamente reale. In particolare Walt, è il personaggio più assurdo che sia mai stato creato. È banalissimo, ma al tempo stesso cattivissimo, e subito dopo è anche giustificatissimo, per poi tornare quel genere di cattivo del tipo “ma che cazzo fai sei stronzo eh”. Di solito i cattivi sono affascinanti, e sono comunque classificabili, ci sono quelli veramente cinici e indifferenti, quelli che sotto sotto hanno i loro valori, quelli che sono cattivi per colpa di quella cosa o quel qualcuno. Walt no. È il protagonista, e per quanto cattivo lo si dovrebbe amare, mentre invece lo si finisce per odiare (se non alla fine, dove tutto ritorna come è cominciato). È troppo reale, prende decisioni che non lo rendono né fico né giustificato. Solo una normalissima persona egoista e cattiva. Gli altri personaggi invece, riescono comunque a essere inquadrati. Gus è pacato ma crudele e spietato, Jesse è solo sfortunato, coinvolto a suo malgrado, e soprattutto vittima di tutto e tutti; Hank è il miglior agente della DEA. Non sto assolutamente dicendo che gli altri personaggi sono inutili e scontati. Anzi, sono tutti molto curati, mai superflui, tutto è sempre molto funzionale alla trama. Ma nessuno riesce a sorprendere come Walt. Sempre per quanto riguarda questo punto, nulla è lasciato a caso. Anche le azioni più insignificanti hanno un ripercussione. La trama, nonostante i continui colpi di scena e le varie complicazioni riesce a essere sempre fluida e mai forzata. Tutto gli avvenimenti e le coincidenze seppur al limite del surreale, riescono ad essere perfettamente verosimili e assimilabili senza alcuna fatica.

Penso però, che l’elemento più di disturbo sia la morale assolutamente nichilista. È qualcosa che va oltre il concetto di giudicare, non è un semplice “tutte le cattive azioni hanno una loro giustificazione”, ed è lo stesso Walt ad ammetterlo. Non ha fatto tutto per la famiglia, l’ha fatto per se stesso, per sentirsi vivo. Che a vederla così in effetti era più facile fare rapine, o buttarsi con un elastico legato ai piedi. E invece no. Eventi assurdi, storie di morti, di violenza, e tutto perché? Senza nessun motivo. Non c’è niente sotto, le cose succedono e basta. E non è superficialità, e andare ancora più a fondo di quanto si sia mai scavato, e per questo Breaking Bad è qualcosa di estremamente fastidioso. E tutto ciò che riesce a turbare, a entrare dentro rimane. Per quanto mi riguarda è semplicemente questo il motivo per il quale sia riuscito a farlo venire duro a tutti, critica e pubblico.

Per chi non avesse ancora avuto modo di vederlo, provveda al più presto (dai sono anche stato bravo a non spoilerare quasi nulla). Perché davvero, se qualcosa riesce a tenere incollati non so quanti milioni di telespettatori senza mostrare neanche mezza tetta, è qualcosa che merita.

Ah, e in ogni caso, Game of Thrones rimane ‘na merda che usa i soliti escamotage (sesso violenza morti) per far credere che spacchi. Schifo.

Breaking Bad: Jesse Pinkman and Walter White

MOVIE OF THE MONTH: DRIVE

di Luca Rivolta

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Eccoci qui al solito appuntamento cinematografico. Oggi tratteremo di un film del 2011, diretto da Nicolas Winding Refn, interpretato da Ryan Gosling, vincitore a Cannes per la miglior regia: Drive.

E la domanda è sempre la solita: perché spacca? Ovviamente anche la risposta è la solita: boh.

Per chi non ne avesse neanche mai sentito parlare, non è un film spazzatura stile Fast And Furious, non c’entra davvero nulla. Il ruolo di pilota è marginale al fine della pellicola. O meglio, la trama è ovviamente sviluppata sulle azioni del protagonista, tutto ruota intorno al pilota, ma come suggerisce il titolo, la guida è solo uno degli aspetti, quello più visibile, quasi un travestimento; infatti la parola drive significa anche motivazione, impulso, ma soprattutto piantare, ficcare, basti pensare all’ultima scena.

Molto brevemente: il pilota, di cui non viene rivelato il nome, lavora come meccanico in un’officina, oltre che fare lo stuntman part-time e l’autista per rapine. Si innamora della vicina, proprio mentre gli si apre una finestra che gli permette di entrare a far parte di un campionato automobilistico. All’improvviso, a causa di una serie di eventi quasi fortuiti si ritrova sua malgrado immischiato in un affare di mafia. Come spesso accade nei film trattati in questa rubrica, non è la trama ad attirare: tutte cose già viste un miliardo di volte in un miliardo di film. La prima cosa che colpisce è lo stile del protagonista. Grandi meriti a Ryan Gosling; è risaputo, prendete un fico della madonna, fatelo dirigere da un regista con delle buone idee, e sbam, personaggio dell’anno. La prima peculiarità che salta all’occhio, oltre alla fichezza ovviamente, sono i silenzi. Tutti i personaggi gli parlano e lui, silenzio. Al massimo un cenno col capo. Del tipo che si passa metà del film a urlare “RISPONDIGLIII”, ma una volta superato questo blocco ci si accorge che è in perfetta linea con il personaggio. Nella prima fase del film, quest’aspetto del personaggio fa molto assomigliare la pellicola a “Lost in Translation”, probabilmente per questa storia d’amore che non riesce a diventare una storia fisica, ma non per questo non intensa, con questi silenzi riempiti dalle musiche quasi psichedeliche. Nella seconda fase viene lasciato più spazio alle scene di violenza, rivelando la duplice personalità del pilota, che comunque non abbandona mai la sua pacatissima tranquillità. È come se due cose opposte raggiungessero un punto di equilibrio, dove si mischiano senza distinguersi. Come detto prima, in un film di silenzi, il lavoro lo fanno le musiche. La colonna sonora , dove spiccano nomi come Riz Ortolani (il migliore dei migliori), Kavinsky e Cliff Martinez, con suoni molto synth e martellanti, si sposa magnificamente con le sequenza in una Los Angeles vista da un’altra prospettiva, meno caotica ma ugualmente cruda e spietata.

Il tutto crea un’atmosfera veramente assurda, quasi inspiegabile, un misto di sensazioni contrastanti. Ogni singolo aspetto del film aggiunge quel tocco di cupa pacatezza, dalla colonna sonora, alla scelta dell’uso delle luci, ai titoli di cosa. Qualcosa che rimane dentro.

Drive spacca perché ti rimane dentro, dal primo momento, dalla sequenza iniziale a quella finale. E anche la mattina dopo. Uno di quei film a cui basta pensarci per farti riaffiorare quelle sensazioni. Da guardare per capire.

MOVIE OF THE MONTH: GRAVITY

di Luca Rivolta

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Se vi state chiedendo di quale film che non vi siete mai minimamente inculati andremo a parlare oggi, dovreste riformulare la domanda. Niente film sconosciuti, malati e assurdi. Oggi un colossal; alla fine abbiamo appena passato le feste, non posso mettermi a parlare di Cronenberg con gente che beve il brodino facendo quel fantastico rumore di risucchio. Meglio spostarsi su qualcosa di più commerciale. Gravity.

Diretto da Alfonso Cuarón, interpretato quasi esclusivamente dai due protagonisti, Sandra Bullock e George Clooney, è riuscito ad aggiudicarsi ben 7 oscar. L’unica cosa che mi sfugge è come sia possibile che un film che è stato giudicato come il film con la miglior regia, la miglior fotografia, il miglior montaggio, la miglior colonna sonora, il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoro sia stato giudicato peggiore di “7 anni schiavo”; ma non addentriamoci troppo nei meccanismi dello spettacolo, in fondo di questi tempi va così di moda essere antirazzisti.

C’è comunque da specificare che il film non ha ricevuto solo lodi, ma anche aspre critiche, soprattutto riguardanti il lato scientifico. In effetti non bisogna essere degli scienziati per capire che sotto una tuta da astronauta non ci si mette solo una fantastica canottiera scollata e degli aderentissimi pantaloni candidi (una che è stata nello spazio non so quante ore, dove m***hia ha pisc***o?!?). E qua il discorso è molto meno banale di quanto sembra: gorgein effetti un film del genere, non può essere solo un film di fantasia, perché cerca di raccontare una storia verosimile con elementi contemporanei. Però non è neanche una storia di fantascienza, non è un film grottesco, tutto deve essere credibile e verosimile. Chiaramente il film deve rimanere intrattenimento, non deve essere un documentario scientifico, ed è qui che è difficile adottare un compromesso, una non semplice scelta da parte della regia. Ma purtroppo il regista non ha molta scelta. Se questa è la trama, così deve andare. Non si può rinunciare a determinate scene. Quindi, a parer mio, in questo caso lo sforzo lo deve fare lo spettatore. In poche parole l’unica cosa che deve fare è sorvolare su certe cose, non fa nulla se l’Hubble e la stazione spaziale internazionale hanno orbite differenti di 150 km, o se ci vogliono anni e anni di addestramento per riuscire ad atterrare con uno sconosciuto modulo spaziale cinese. Coleridge coniò il termine “sospensione dell’incredulitàsandraappunto per descrivere questo fenomeno. In poche parole, frega nulla a nessuno della velocità dei detriti, l’importante è farsi coinvolgere. E questo è possibile solo grazie all’incredibile mix di immagini e suoni creati da Cuaròn. Non si fa alcuna fatica ad ignorare gli aspetti scientifici, perché si è troppo impegnati a rimanere in ansia per la Bullock, ad ammirare le magnifiche aurore boreali, a rimanere sorpresi per gli inaspettati colpi di scena.

 

Il film riesce a essere credibile nel suo complesso nonostante le imperfezioni scientifiche, che non è cosa facile, anzi. Probabilmente sarebbe molto più facile consultare Piero Angela, con una piccola intervista a Nespoli, e fiù, ecco un bel documentario. Invece no, Gravity è qualcosa di più, riesce a essere arte. Riesce a tenerti incollato allo schermo, con il cuore che batte, riesce a farti provare sentimenti veri e intensi. Il mix di fotografia e sonoro è secondo me qualcosa che ha davvero pochi precedenti. E soprattutto, riesce ad essere un film per tutti (o quasi), cosa non facile per film che si elevano rispetto alla calma piatta dei cinema italiani (e non). Da vedere.

 

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Justine Mattera in A Day With Mia Wallace

di Federico Ledda

Camaleontica, sorprendente, iconica. Per il ruolo di Mia Wallace, non potevamo che scegliere Justine Mattera. Solo lei sarebbe stata capace di ricoprire un ruolo così complesso con tanta eleganza.

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Per quelli che non lo sapessero, Mia Wallace è la protagonista femminile incarnata da Uma Thurman in Pulp Fiction. Nel film, interpreta una tossicodipendente “moglie del capo”, ma che nonostante la sua vita poco raccomandabile, è un’immensa femme fatale capace di far innamorare qualsiasi uomo grazie alla sua classe ed eleganza. È proprio questo che ho notato in Justine quando ci siamo conosciuti: l’eleganza, e soprattutto il suo essere poliedrica. L’abbiamo vista in Televisione, l’abbiamo ascoltata in radio, l’abbiamo sfogliata nelle maggiori riviste nazionali e non, l’abbiamo vista al cinema e anche a teatro, dove, infatti tornerà dal 28 gennaio al 22 febbraio, con la commedia “Pene d’amor perdute” di William Shakespeare e diretto da Riccardo Giudici con i trench Burberry.

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A Justine piace mettersi in gioco, affrontare nuove sfide, per lei nulla è scontato: motivo per cui alla nostra richiesta, non ha esitato a dirci sì, interpretando al meglio un ruolo così complesso. Ladies and gentleman Mrs. Mia Wallace.

Per quale motivo hai scelto di accettare la nostra proposta, e di diventare la nostra covergirl di gennaio?
Dopo avervi conosciuto ed essere stata colpita dal vostro talento, ho deciso di seguire il mio istinto e di buttarmi in questo progetto. E’ giusto dare spazio ai giovani!

Nella tua carriera hai fatto, e stai facendo davvero tanto. E’ stato difficile interpretare un personaggio così distante da te?
Non lo è stato! Pulp Fiction è un film che ho adorato e che conosco molto bene. Chi poi non vorrebbe essere Uma Thurman? Non che io lo sia, eh! Ma quando ho messo la parrucca mi sono immedesimata in lei, mi sono fatta trascinare dal momento, dalla situazione, dai vestiti ed ecco fatto.

Come sarebbe secondo te la giornata tipo di Mia Wallace?
Mia me la immagino come una classica ricca, snob, ma più che altro annoiata, abituata a ottenere ciò che vuole, e a cui piace divertirsi… Anche grazie all’abuso di sostanze illegali.

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Invece com’è la giornata tipo di Justine Mattera?
Forse la mia è più noiosa della sua! (ride ndr).
Ho due bambini, non ho mai molto tempo per me stessa. A volte capita che dopo averli accompagnati a scuola, vada in qualche showroom a scegliere alcuni abiti, o faccia delle interviste in televisione, o che magari se è sera, vada a fare da vocalist in qualche locale. Adesso invece sto facendo le prove per ”Pen D’Amor Perdute” di Shakespare, che debutta tra poche settimane al teatro Caboto di Milano, quindi, anche le prove dello spettacolo fanno parte della mia giornata.

A proposito di teatro, adesso ti appresti a tornarci con ”Pene D’Amor Perdute” di William Shakespeare…
Sì, è un progetto sperimentale che mi ha colpito sin da subito. Diciamoci la verità, Shakespare a teatro non vende, a meno che non ci sia Al Pacino ad interpretare Riccardo III, o un personaggio simile. Però ho pensato che quando mai mi sarebbe ricapitato di prendere parte in Italia ad un’opera di William Shakespeare? Penso mai nella vita, quindi ho accettato. Negli Stati Uniti ho avuto occasione di recitare in lingua originale in opere come Macbeth e La Tempesta, mentre invece questo è lavoro meno conosciuto… Una sorta di commedia light, rivisitata in chiave ironica, fashion, ma di spessore. Io interpreto la Principessa di Francia, che ha studiato negli Stati Uniti… proprio come me! (ride ndr)

Sei anche impeccabile in fatto di moda, infatti hai messo una grande impronta nel nostro shooting. Quanto la moda influisce nella tua vita?
La moda mi diverte, mi da modo di esprimermi quotidianamente. La prima impressione, alla fine, è basata su quello che indossi, quindi è importante essere impeccabili, ma rimanendo sé stessi. Mi piace definirmi una ”freak” perché mi piace divertirmi indossando cose che la gente non si aspetterebbe. Non mi piace essere prevedibile.

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Negli scatti ti vediamo sempre con un bracciale nero, cos’è di preciso?
E’ il mio Beurer Activity Tracer, un sensore di attività a bracciale che registra ininterrottamente l’attività fisica e monitora la qualità del sonno che posso poi controllare con un app direttamente sul mio Smartphone!

Così distanti ma così unite, con la parrucca addosso ho difficoltà a ricordarmi che in realtà sei Justine e non Mia Wallace. Qual è un aggettivo che ti unisce a lei, e uno che ti differenzia?
In comune abbiamo la consapevolezza di chi siamo… l’essere sexy. Mi differenzia il fatto che io non mi drogo, non mi sono mai drogata, e a differenza sua, non sono sposata con un Gangster!

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Quentin Tarantino è un regista che presta molta cura alla parte sonora del film… Alle colonne sonore. Quale secondo te, dovrebbe essere quella giusta per il nostro servizio?
Noi abbiamo usato quella originale del film, che secondo me è stata una parte fondamentale per ricreare il mood originale che si respirava sul set. Se ne dovessi scegliere una, Girl You’ll Be A Woman Soon degli Urge Overkill.

 

Photographer ALESSANDRO LEVATI

From an idea of ALESSANDRO LEVATI, JOHNNY DALLA LIBERA, FEDERICO LEDDA

Make up YLENIA MOLINARI

Styled by FEDERICO LEDDA, JUSTINE MATTERA

Production JOHNNY DALLA LIBERA, VANINA VIVIANI, ALESSANDRO VILLA

Backstage video ALESSANDRO VILLA

Graphic designer FILIPPO MANELLI

Location DRIVER INDOOR PARK (Via Pasquale Paoli 114, – Como)

MOVIE OF THE MONTH: LA BALLATA DELL’ODIO E DELL’AMORE (Balada Triste De Trompeta)

di Luca Rivolta
 
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La Ballata dell’odio e dell’amore è un film di Álex De la Iglesia, vincitore del Leone d’Argento per la miglior regia, nonostante in Italia, come capita spesso e volentieri, non è stato neanche proiettato nella maggior parte delle sale.
 
Il film è ambientato durante la dittatura di Francisco Franco, (il contesto ha un ruolo fondamentale nella vicenda), ed è principalmente una storia di un intreccio amoroso tra due clown e una trapezista.
 
Concedetemi una piccola premessa: odio i clown. Oddio, non è che li odio proprio, è che mi fanno cacare addosso, un misto di paura e schifo, una cosa strana. Il film è un horror grottesco mascherato da una storia d’amore malata. Quindi vi lascio immaginare la difficoltà. Ma se ci son riuscito io potete farcela tutti, non temete.
 
Il film inizia con una scena davvero di forte impatto: durante la guerra civile spagnola, un generale entra in un circo arruolandone tutti i membri per combattere le milizie fasciste. Il clown, armato solo di machete, ne uccide a decine. È il classico film che solo per la potenza delle immagini convince fin dal primo minuto. Senza spoilerare niente, vi anticipo solo che la storia si sposta poi qualche anno più avanti, quando il figlio, diventato un pagliaccio triste, a differenza del padre che era un pagliaccio felice, entra a far parte di un circo. Il suo ruolo sarà quello di spalla al pagliaccio felice, punto di forza del circo. Banalmente, si innamorerà della sua fidanzata, e sempre banalmente verrà subito a galla la vera natura del pagliaccio felice, infinitamente violenta. Da qui in poi la pellicola si stacca completamente da ogni senso logico, elevandosi a qualcosa di assolutamente grottesco e surreale. Il triangolo amoroso verrà vissuto da tutti in modo più che malato.
 
Non mancano scene di violenza che sfiorano il macabro, le stesse azioni dei protagonisti, perdono completamente qualsivoglia senso razionale. Certo, bisogna essere amanti di questo genere, ma il film, sotto questo punto di vista è davvero sublime. Trovo che sia davvero difficile far combaciare elementi che un senso razionale non ce l’hanno, invece De la Iglesia ci riesce perfettamente. È davvero un film che regge, dall’inizio alla fine. Anche nel finale, fino all’ultimo secondo, sarete immersi nella storia, ma allo stesso tempo confusi, e quasi schifati. La sensazione che si prova è qualcosa di molto simile a quello che prova la protagonista nei confronti dei due clown. Una sorta di seduzione… si è quasi ipnotizzati, ma anche spaventati e disorientati di fronte a tanta violenza e malinconia. Iglesia gioca molto sulla contrapposizione pagliaccio felice e pagliaccio triste, sia nella contrapposizione tra i due, che nel conflitto interiore degli stessi. Una frase riassume a parer mio tutto ciò in modo molto esplicito, quando il pagliaccio felice ammette che se non fosse stato un clown, quasi sicuramente sarebbe diventato un assassino. L’altro lato secondo me degno di nota è la critica al regime fascista che opprimeva la Spagna in quegli anni. Quando si parla di questo argomento, è molto facile sfociare nel banale; sì, sì, nazi-fascisti cattivi, povera gente comune bla bla, tutte cose già viste un milione di volte. Qui invece si nota una critica perfettamente esplicita ma per nulla banale. Iglesia non cerca di andare in profondità, non esplora nuovi punti di vita. Principalmente dice anche lui “fascisti cattivi”, ma lo fa prima di tutto intrecciandolo con la storia, anche se di fatto non c’entra nulla, e principalmente lo fa in modo malato. Riesce a tenersi sul grottesco anche dall’inizio alla fine.
Sugli altri aspetti tecnici non mi soffermerei molto. Sì, tutto molto curato, la colonna sonora aggiunge drammaticità al tutto, cosi come il trucco, le location. Attori impeccabili, come quasi sempre accade quando sono seguiti da un bravo regista. Nota di merito alla fotografia: la maggior parte delle scene sono davvero devastanti, un fortissimo impatto visivo.
 
Come al solito è difficile descrivere a parole certe sensazioni, ma vi assicuro che è assolutamente qualcosa da provare.
 
 
 
 

THE PILLS: NON CHIAMATECI YOUTUBERS

di Sara Bianchi

 The Pills

“Un cinepanettone con la barba, Enzo Salvi con le Clarks, Massimo Boldi coi Cheap Monday”: stiamo parlando dei “The Pills” e questa é la descrizione che danno di loro nel profilo Facebook. Luca Vecchi, Luigi Di Capua e Matteo Corradini: tre ragazzi “romani Doc” che nel 2011 hanno dato vita a quella che oggi è una delle serie di YouTube più conosciute ed amate. Mini “pillole” girate a casa con l’aiuto di parenti ed amici che hanno colpito il pubblico del web al punto da farli sbarcare nel 2014 in Tv mentre in questi giorni è in produzione il loro primo film.

Riusciamo a contattare Luca senza problemi ma non riusciamo ad incontrare i ragazzi perché risulta impossibile riunirli tutti in questo periodo in cui sono nel pieno della produzione. Non ci rimane quindi che optare per un’intervista via web in puro stile “attori di YouTube” e “giornalisti online”. Si consiglia a chiunque non li conoscesse un “chiusone”, come si dice a Roma, o una “Full Immersion”, per essere più internazionali, dei loro video prima di continuare con l’intervista.

Perché il nome “The Pills”? Pillole di saggezza o pillole di ecstasy?

Beh…una pillola per ogni evenienza! Crediamo che nella vita ci sia bisogno di saggezza ma anche di ecstasy, dipende tutto dalle circostanze.

Dal 2011 su YouTube, creatori di una delle serie più amate sul web…ora che avete raggiunto il successo e la popolarità le persone vi trattano in modo diverso?

Raggiungere la popolarità ci ha aiutato molto in termini di quella che possiamo definire “integrazione istantanea”. La gente non ci “riconosce” ma praticamente ci conosce già. Spesso veniamo trattati come amici di vecchia data e questo a livello sociologico è un lusso!

Invece per quanto riguarda le donne? Anche in quel campo sono cambiate le cose? Chi “rimorchia” di più?

LUIGI! Lui lo possiamo definire come “il Tom Cruise dei The Pills”

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Sempre parlando di donne, siete “sfigati” nella vita come nei corti? Che fine ha fatto Sara? È tornata dall’erasmus? Simona invece uscirà mai dalla sua dipendenza?

Allora…ognuno di noi ha un suo modo di approcciarsi al sesso femminile, forse più consono per definirci è “FACIOLETTI” ( traduzione italiana: uomini con un leggero ritardo nell’approccio con l’altro sesso) Per quanto riguarda Sara e Simona ciò che accadrà loro è a libera interpretazione, ognuno può fornire la sua versione dei fatti. Per quanto riguarda il destino dei personaggi invece una cosa è certa: diventeranno vecchi e tristi come tutti, come tutti!

Voi spesso parlate di Roma e delle tipologie dei romani…che tipo di romano vi definireste?

Luca: Sai che non lo so? Oramai la “questione tribale” non è più rigida come una volta e non si limita solamente all’outfit, credo si tratti prevalentemente di una questione d’attitudine. Appartenere ad una cerchia vuol dire condividerne degli ideali e, almeno per ora, il cinismo ci impedisce fisiologicamente di averne.

È vero che vi offendete quando vi chiamano “Youtubers”? Perché?

Youtuber significa amministrare anche una certa componente social mentre noi raramente chiediamo a chi guarda di iscriversi al canale…siamo un po’ trascurati da quel punto di vista. Per noi YouTube è il veicolo non il fine.

Uno dei vostri video di maggior successo è quello sulle Hogan, a quando quello sulle Windsorsmith?

Le Hogan stesse erano un mezzo! Lo sketch parlava di pericolosi scheletri nell’armadio che una volta venuti a galla possono condizionare la realtà che circonda l’individuo. Se troveremo altre idee valide saremo lieti di utilizzare anche il mezzo “Windsorsmith”.

FOTOARTICOLO

C’è un motivo per la scelta del b\n nei video o è semplicemente stilistica?

La fotografia negli interni è davvero tosta, soprattutto se non si dispone di tutti quegli strumenti come quinte e pareti mobili. Il B/N rende tutto più gradevole e sembra subito cinema d’autore anche se la scena é piena di parolacce e scoregge: “una Nouvelle Vague alla vaccinara”

Sempre rimanendo sui vostri video, una curiosità…cosa vi ha fatto Quinzi?

Esiste come essere umano, questo basta.

Ora che siete usciti dal web ed è in lavorazione un film…cambierà modo di fare i video e le tematiche che affronterete?

Ci limiteremo a raccontare la realtà che ci circonda e, soprattutto, quello che ci fa ridere e ci diverte. Se cambierà il modo di farlo sarà solo per tentare di renderlo più efficace in termini di mezzi e linguaggio.

Come sta cambiando la vostra vita in questo periodo? Avreste mai pensato di arrivare fino a qui? Avete mai pensato di lasciare definitivamente il web e spostarvi su tv e cinema?

Allora…la televisione ed il cinema sono dei modi di comunicare decisamente più tradizionali ed essendo tali, a seconda dell’evenienza, vi sono dei parametri ai quali doversi inevitabilmente attenere. A meno che tu non sia un mostro sacro affermato che ha la dovuta attenzione mediatica o un magnate multimilionario capace di permettersi qualsiasi cosa…il web rimane forse il canale con meno vincoli.

Dato che il nostro sito giornalistico ha sede a Milano ed io sono la corrispondente da Roma…che ne pensate dei nostri amici milanesi?

Ogni trasferta milanese ci è andata sempre bene…adoriamo Milano! Adoriamo la Fashion Week e adoriamo pure il Salone del mobile!!