WORLD EXCLUSIVE – MAVI PHOENIX: THE NEW SWAG QUEEN

di Federico Ledda

© Randy Kambodscha 1

Abbiamo intervistato per la prima volta Mavi Phoenix, austriaca di origini siriane classe 1995. Sì, avete letto bene. 1995. Ha quindi 22 anni. 22 anni di puro swag. Non fatevi però ingannare dalla sua età, sarà pure giovane, ma Mavi Phoenix è una vera e propria artista.
Inizia a produrre all’età di undici anni giocando con un Mac usato regalatole dal padre per natale. Pubblica poi nel 2014 il suo primo EP “My Fault” che seppur acerbo, inizia a formare il suo sound e appunto, il suo swag. Ritorna nel marzo di quest’anno rilasciando l’EP “Young Prophet“, ed eccola al suo meglio. L’EP è pazzesco e ti cattura dalla prima all’ultima traccia. La più curiosa è “Aventura“, pezzo catchy, dal beat trascinante (che ti obbliga a ballare) grazie alla contaminazione di suoni africani. È proprio Aventura infatti, che oltre ad essere diventato il singolo di lancio, è stato scelto da Desigual come soundtrack per il nuovo spot uscito oggi a livello mondiale. Il primo dalla rinascita del brand, celebrata settimana scorsa durante la NYFW.

Mavi è unstoppable e produce hit in una velocità disarmante, come un vero e proprio genio del beat. Uscirà infatti a novembre una nuova versione di Young Prophet, che vedrà la presenza di due nuovi pezzi e che la porterà in tour al Pitchforck Avant Gard e poi a Milano a novembre per Linoleoum. Siamo certi che Mavi Phoenix sarà la prima rapper/cantante austriaca ad avere risonanza mondiale. E non dite che The Eyes Fashion non vi aveva avvisati.

Come hai conosciuto il team di Desigual? Come hanno scelto la tua canzone?
Ad essere onesta non so come mi abbiano scoperta…Probabilmente perché Aventura era numero 1 su Hypemachine. Ci hanno invitati nei loro uffici a Barcellona e ci hanno accolto in maniera super friendly! Ci siamo davvero divertiti e lo spot, diretto da Luis Cerveró è splendido.

Che cosa significa ”Aventura” per te?
Essere un’ Aventura per me significa essere pronta e aperta al mondo e quello che succederà.© Randy Kambodscha

In che modo il tuo sound è cambiato dal primo EP ”My Fault”? Chi o cosa, è la conseguenza?
Sono naturalmente cambiata, diciamo evoluta dall’uscita di ”My Fault” dato che sono passati più di tre anni. Ho iniziato a lavorare con il produttore Alex The Flipper e insieme proviamo a fare musica che sia entusiasmante per noi e che, soprattutto, rispecchi chi sono io come artista. Musica sincera. A livello di ispirazione, ultimamente sono ispirata dalla musica house dei primi anni 2000, ma i miei punti di riferimento di sempre sono Kanye West e Frank Ocean.

Stai per rilasciare una nuova versione del tuo EP uscito a marzo ”Young Prophet”…
Subito dopo l’uscita dell’EP ho prodotto delle altre tracce che ho anche suonato live durante il tour del disco. Diciamo che ne sentivo la necessità perché fanno parte anche loro del periodo Young Prophet.

Chi è il ragazzo che è sempre dietro di te nel video di ”Aventura”?
E’ un mio amico, si chiama Usman o Ussy per gli amici. Non è ne un modello, ne un ballerino o un attore, anzi era la prima volta che faceva una cosa simile, ha fatto un buon lavoro. Ci siamo divertiti tantissimo sul set.

Stai per tornare in tour suonando al Pitchfork Avant Gart di Parigi e perfino a Milano, nella nostra hometown. Che cosa fai prima di salire sul palco?
Sono davvero contenta all’idea di suonare a Parigi e Milano! E’ veramente una figata. E’ sempre stato un mio obiettivo suonare all’estero, non vedo l’0ra. Prima di andare sul palco dico semplicemente a me stessa che devo spaccare. (ride, ndr.)

© Randy Kambodscha 2

RAIN DOVE: I AM I

di Federico Leddaae1053b6-5945-473a-8e3f-2c67efe9c31b.inline_yes

Appena la incontro mi mette subito a mio agio. Arriva, un po’ in ritardo, accompagnata dalla fidanzata Sierra. Il ritrovo è un bar in Piazza Cavour, c’è un po’ di vento ma si sta bene, è una delle sera d’estate e il cielo su Milano è di un blu intenso. 

Ci sediamo a un tavolo e ordiniamo tre margarita, così per rilassarci un po’. La prima cosa che le chiedo mi esce proprio spontanea, come ti definisci? Che tipo sei? La sua risposta poi, è stata bellissima. Io sono io. Non sono uomo, non sono donna. Sono Rain. 

Così è iniziato il mio incontro con Rain Dove, la modella gender fluid che sta facendo parlare di sé per il suo impegno sociale in difesa degli esseri umani oltre che per la sua immagine che perfettamente si abbina al mondo maschile e a quello femminile. Lo sa bene Sisley che l’ha appena resa testimonial della campagna con il messaggio sociale #OneOfAKind o, Calvin Klein che lancia la sua carriera facendola sfilare per il menswear a New York coperta solo da un paio di boxer da uomo. È coraggiosa Rain, (sì, si chiama come la parola “pioggia” in inglese e sì, è il suo vero nome, ndr.) che è riuscita a fare della sua particolarità un talento, rompendo un po’ di più il muro dei pregiudizi.

Chi sei?
Chi sono? Io sono Rain Dove. Io sono io. Sono un essere umano, così come tutti gli altri. Sono una modella, attivista e attrice.

Come è iniziata la tua carriera?
E’ iniziata dopo che ho perso una scommessa di football americano contro un’altra modella. Non mi interessava essere una modella, non mi era nemmeno mai passato per la testa, mentre invece lei sosteneva che avessi il viso giusto. Abbiamo quindi scommesso sull’esito di una partita e se io avessi perso, mi sarei presentata a un casting di sua scelta. Così andò, e così mi presentai a un casting di Calvin Klein qualche mese dopo.

E come andò?
Quando mi presentai là, mi dissero di essere nella giornata di casting sbagliata. Guardandomi in giro infatti, vedevo solo modelle con i capelli lunghi e bionde. Giuro che erano tutte bionde, a parte una con i capelli rossi. Pensai quindi facessero il casting diviso per colore di capelli e così mi presentai il giorno dopo. Al mio arrivo realizzai che il casting era solo maschile, pensai: ”mi hanno scambiata ancora per un uomo”, ma la cosa mi divertiva. Così feci il casting e mi presero, realizzando quale fosse il mio sesso reale. Al momento della sfilata, mi diedero il mio outfit che era solamente un paio di boxer maschili.
La sfilata era iniziata, erano momenti frenetici. Avevo quindi un secondo per fare la mia scelta, che poteva essere scappare in lacrime oppure, far rimpiangere alla mia amica di aver vinto la scommessa sulla partita. Scelsi la seconda, e sfilai in topless, coperta solo da un paio di mutande da uomo. Così iniziò la mia carriera da modella. dove

Cosa ti spinse ad andare avanti anche dopo la scommessa?
Il fatto che se la gente può spendere anche tremila dollari per una borsa, forse ne può spendere tre al mese per garantire acqua pulita a chi non ce l’ha. Ogni persona ha diritto ad avere acqua, cibo e un rifugio. Ho pensato che questo lavoro avrebbe potuto garantirmi una piattaforma per raccontare a molte più persone quello per cui mi batto.

Come sei diventata attivista?
Lo sono sempre stata. Ho sempre voluto fare qualcosa per gli altri. Ho avuto un paio di esperienze dove sono stata molto vicina alla morte, anzi, a volte penso di essere proprio morta. Questo mi ha fatto apprezzare di più la vita. Anche quando sei triste, quando sei arrabbiato. E’ comunque fantastico potere provare delle emozioni. Ti rendono vivo. Avendo passato dei periodi estremamente bui nella mia vita, dove non sentivo niente, ho deciso di aiutare le persone, così che non si sentano mai sole e perse come lo sono stata io. Ho sempre pensato che essere un’attivista significava esclusivamente andare nei paesi del terzo mondo e aiutare. Tipico pensiero da persona bianca. Invece non è così, si può aiutare in tantissimi modi e con qualsiasi mezzo.

Che tipo di attivista sei tu quindi?
E’ un misto tra esperimenti sociali, arte ed espandere la mia voce. Lo amo. C’è così tanto che si può fare.

Qual è il tuo obiettivo principale come attivista?
E’ un obiettivo semplice: garantire a ogni essere vivente accesso ad acqua, cibo, un posto dove dormire e cure mediche. Le quattro cose che ognuno di noi ha bisogno per sopravvivere. So che non ce la farò mai da sola, ma ce la metterò tutta. Siamo tutti una cosa sola, allo stesso livello.

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SISLEY #OneOfAKind advertising

Cosa fai nel tuo piccolo per attuare un cambiamento?
Faccio diverse cose. Innanzi tutto ”dono” i miei canali social come piattaforma a chi ha bisogno di fare sentire la sua voce. Associazioni, organizzazioni, etc. Ad esempio, se c’è un’organizzazione che si occupa dei diritti di persone di diversi colori ed etnie, o sessualità, do libero acceso ai miei canali così che possano diffondere la loro voce.

Poi?
Mi piace fare esperimenti sociali. Credo nella differenza tra gender e sesso. Il sesso è quello che ti caratterizza in base a come nasci. Sei una donna se hai la vagina, sei un uomo se hai il pensa. Il gender è invece quello che completa la tua persona. Chi è che può definire quello che siamo se non noi stessi? Dovremmo essere liberi di poter scegliere noi stessi cosa essere, se essere uomini o donne. Dovremmo essere apprezzati e definiti in base a quello che scegliamo di essere, non a quello che dovremmo essere. Io sono io, tu sei tu e non ci sarà mai un’altra persona così.

Cosa pensi di Beyoncé? E del suo essere femminista?
Sono fermamente convinta che le donne esistano perché la società ci ha separate definendoci donne in base a quello che abbiamo nelle mutande. Io non credo nei corpi, credo nell’essere. Mi definisco un’esistenzialista, ognuno è com’è e non dovrebbe essere definita donna solo per un paio di tette. Le femministe combattono l’oppressione del genere femminile all’interno di alcune culture denunciandolo, cercando l’equazione dei sessi. Rispetto davvero tanto tutto questo. Così come ammiro Beyoncé che utilizza la sua rilevanza per fare del bene. Sta facendo un lavoro incredibile.

Parlando del tuo lavoro, ti trovi più a tuo agio indossando vestiti maschili o, vestiti femminili?
Con quelli socialmente definiti da uomo. Perché puoi fare come ti pare. Con quelli da donna hai da rispettare degli standard: fianchi, seno, taglia etc… Sono più a mio agio indossando menswear, ma quando mi vesto a donna mi sento potente. Forte. E’ divertente perché quando mi vesto da donna, la gente creda che sia un transgender, pensano: ”starà diventando una donna? Starà diventando un uomo? Quale direzione starà prendendo?”

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EXCLUSIVE: YOUNGER AND BETTER

di Federico Ledda
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Dal sound trascinante e puramente elettronico, la band milanese Younger And Better si sta facendo conoscere attraverso un intensivo tour che per tutta l’estate li ha portati in giro per l’Italia. Li abbiamo incontrati e ci hanno fatto sentire in anteprima il loro primo disco in uscita a ottobre…

Parlatemi del vostro nome. Che cosa è Younger and Better?
Il nostro nome è ispirato direttamente da una canzone dei 65daysofstatic, chiamata appunto ”When we were younger and better”. E siccome l’età media del gruppo è di 24 anni ci sentiamo ancora liberi di non essere a disagio a portarlo. Un giorno, tra un po’ di anni, potremo buttarla sull’ironia.

Avete appena finito un tour di venti date senza aver ancora rilasciato un album vero e proprio ma solo degli EP, come ha reagito il pubblico?
Molto bene. Siamo assolutamente soddisfatti. Era importante per noi testare i nuovi brani direttamente sul palco. Abbiamo portato in giro solamente pezzi tratti dal nuovo disco e il pubblico ha risposto alla grande.
E’ sempre stimolante portare dei lavori inediti davanti a qualcuno, è importantissimo vedere le reazioni di chi ti ascolta e paragonarle a quelle che ti aspettavi tu.

Come definireste il vostro sound?
E’ sicuramente il risultato naturale di una serie di input che ci sono arrivati durante il periodo di transizione dall’uscita di “Take Care EP” e l’inizio della nuova fase di scrittura.
C’è molta più elettronica, abbiamo inserito percussioni e loop di chitarra. Non c’è un modo per definire e racchiudere il genere che vuole essere questo disco, se volesse esserne solamente uno. L’unica cosa da fare è venire ad ascoltarlo dal vivo prima ancora di sentirlo su Spotify.

Chi vi ha ispirato?
Una serie di fattori ci hanno portato a voler fare ancora qualcosa di diverso rispetto al suono concreto che avevamo trovato per “Take Care EP”.
Abbiamo sentito il bisogno di risputare fuori tutto quello che abbiamo immagazzinato negli ultimi due anni.
Quindi persone, situazioni, luoghi.

Siamo molto soddisfatti perchè pensiamo che questo disco sia la perfetta sintesi del nostro pensiero. Del modo di vedere la musica, di farla.

Se ci sono delle band dalle quali abbiamo preso di più per questo sound non possiamo che fare il nome di Battles ed Errors.

A ottobre uscirà il vostro album, come vi state preparando?
Suonando. Suonando tanto, e modificato il live set di data in data. Abbiamo come obiettivo quello di arrivare ad ottobre con un live set perfetto, e poter portare in giro uno show di qualità.

Descrivete l’album utilizzando un solo termine e spiegatemi il motivo.
Colori. E’ un album pieno di colori. Colori caldi. Ce ne sono tantissimi, dall’utilizzo di determinati synth al suono dei loop di chitarra. E questo sul palco si avverte. Lo avvertiamo noi, lo avverte chi ci ascolta.

IL PAGANTE STRIKES AGAIN

di Federico Leddamaxresdefault-58

La loro Too Much è stata tra le canzoni più suonate di tutta l’estate totalizzando oltre due milioni e mezzo di stream su Spotify. Abbiamo incontrato i nostri amici de Il Pagante che, in tutta confidenza, ci hanno spiegato che cosa per loro è un po’ too much…

Che cosa è too much?
FN: (Federica Napoli) Tante cose possono esserlo, dai modi di fare, di essere, di vestirsi in base alle mode… Too Much per noi rappresenta tutto quello che è eccessivo.
EV: (Eddy Veerus) L’altro giorno per esempio, il presentatore di un festival aveva un completo giallo, con le scarpe fluo. Quello era un po’ too much.

Gliel’avete detto?
EV: Eh, gliel’ho dovuto dire…

E lui?
RB: (Roberta Branchini) Ha detto che era vero, era un po’ too much.

EV: Abbiamo quindi fatto questa canzone per identificare un po’ tutto quello che per noi è too much. Anche perché era diventato un modo di dire che tra di noi veniva utilizzato molto spesso.

Lanciate anche parecchie frecciatine nel pezzo… DBBAPAcWAAEJK7u
RB: Assolutamente tutte volute, eh.

Tra cui quella ad una web star, che un mese fa non l’ha presa presa benissimo, sfogandosi nelle sue Instagram Stories
RB: Il nostro ritornello era generalizzato, non era mirato a qualcuno nel dettaglio. Chi si è sentito tirato in causa è perché magari due domande se le è fatte.
EV: Il ritornello dice: ”ma perché parli sempre di Trump?” Che è una metafora che vuole indicare tutti quelli che si spingono in discorsi oltre le loro competenze. Prosegue poi con: ”ti prego torna a fare la web star” cioè, torna a fare quello che sai fare. Ridimensionati. Il fatto che qualcuno si sia poi sentito chiamato in causa, significa che è cascato nella trappola… Che la cosa ha funzionato. Mi spiace solo che a caderci sia stato uno Youtuber inutile come Riccardo Dose e non qualcuno che conti di più, ecco.

Il video si apre con una special guest d’eccezione: il senatore Razzi. Come l’avete recuperato?
EV: Abbiamo un amico che si occupa di trovare le special guest dei nostri videoclip dato che ormai averle è una costante. Avevamo scritto una scena che volevamo il senatore interpretasse, così gliel’abbiamo proposta… Il pubblico ha apprezzato e lui è stato gentilissimo.

Cosa dite a chi ancora oggi non capisce la vostra ironia?
FN: Che dopo cinque anni è un po’ rincoglionito…
RB: E che dovrebbe iniziare ad ascoltarci di più.
EV: Diciamo che chi dopo cinque anni non ha ancora capito la concezione de Il Pagante è un po’ too much.

 

BIG BANG FESTIVAL: A CHAT WITH GAZZELLE

di Federico Ledda

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Un’artista che mi piace particolarmente ascoltare durante questo periodo di pausa è sicuramente Gazzelle. Cantautore romano che mi ha interessato per il suo sound fresco e per la scelta di non rivelare la sua identità a inizio carriera. Risale infatti a poco prima dell’estate la scelta di esporsi anche a livello ”visivo”.
Anche lui, come altri grandi artisti quali Mudimbi, Lo Stato Sociale e Canova, Gazzelle faceva parte degli artisti presenti al Big Bang Festival di Nerviano. Manifestazione gratuita dalla grande line up alle porte di Milano giunto ormai alla quinta edizione. Tra una birra e un live abbiamo scambiato due chiacchiere con l’artista che ci ha raccontato come ci si sente ad essere uscito allo scoperto…

E’ uscito a marzo Superbattito, il tuo primo disco. Come sta reagendo il pubblico?
Una bomba! Sto facendo un tour molto intenso, le date sono super, il pubblico è sempre caldo. Sta andando meglio di ogni mia aspettativa.

Da cosa è stata dettata la scelta di nascondere l’identità agli inizi della tua carriera?
In generale per il semplice fatto che non mi piace tanto apparire. Non in modo estremo, non mi voglio nascondere…Non so come cazzo dirlo, voglio che escano prima le canzoni. Voglio stare un passo indietro rispetto alla mia musica, specialmente nella fase iniziale, in cui me lo potevo permettere.

Come sta evolvendo la cosa, adesso che comunque ti si vede per forza?
Beh infatti, ai live mi si vede…Ma mi si vede di più rispetto prima. Ovviamente sui social, non farò mai i selfie in bagno o cose del genere. Spero solo che andrà bene, sempre così, a duemila. Adesso stanno anche uscendo delle canzoni nuove. Sono molto felice.

Qual è la canzone che più ti piace suonare live?
Non sei tu.

Perché?
E’ la più vecchia che c’è nel disco, l’ho scritta circa tre anni fa. Ci sono molto legato. Le voglio bene.

L’estate sta finendo, così come le tue date esiste, cosa ci sarà dopo?
Ancora date. Andremo avanti tutto l’inverno a suonare. Non so cosa ci sarà dopo, per il momento mi sto focalizzando a spaccare durante le date. Il resto si vedrà.

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BLACK ANGELS AND DARK SOULS

di Federico Ledda

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Non conoscevo i Black Angels molto bene, anzi, non li conoscevo proprio. Fino a quando, un paio di mesi fa, spulciando per bene il mio Spotify ho scoperto il loro singolo Currency. È stato amore a prima vista.

La band di Austin, Texas mi ha colpito per il loro stile realmente psichedelico, non wannabe come funziona oggi. Sembra quasi di ascoltare le produzioni di una band di metà degli anni 70, quelle che sei convinto abbiano suonato a Woodstock. Non a caso, infatti, la band ha come riferimento iconiche band come Doors o Velvet Undeground, da dove appunto, prende spunto il nome della band.  

Reduci da due date-trionfo in Italia, abbiamo incontrato Christian Bland e i Black Angels per chiacchierare del loro nuovo disco “Death Song” e di quanto la morte influisca nei loro lavori.


Come descrivereste il vostro ultimo album? Quale è stata l’ispirazione?
E’ un istruzione manuale alla vita e alle sue insidie. L’ispirazione è semplicemente stata la vita.
 
Quali sono le differenze dal vostro precedente lavoro Indigo Meadown?
Death Song ha avuto un processo creativo più lungo. Le canzoni sono maturate e sbocciate con il tempo. Indigo Meadown è stato un album più impulsivo.

 

Currency, il vostro nuovo singolo, ha un sound quasi infausto. Riflette il modo in cui vi sentite adesso?
Assolutamente. 
Siete in tour. Com’è essere tornati on the road?
Indescrivibile. Amiamo suonare dal vivo.

Quale canzone di Death Song è la vostra preferita? Perché?
Cambia in base al nostro umore. Adesso è Grab As Much (As You Can). Il groove che ha il basso di Alex in quel pezzo è da brividi.
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HEY PAUL SMITH, WE LOVE MAXÏMO PARK!

di Federico Leddamaximo_park_hb_200117
A tre anni di distanza da “Too Much Infirmation” i Maxïmo Park tornano sulle scene con un nuovo disco. Ispirato al contorto sistema politico e all’urgenza di trovare subito una soluzione che non ci mandi alla deriva, “Risk To Exsist” questo il titolo, si presenta come un disco che riporta la band al loro sound originale. In uscita il 21 aprile e registrato completamente live al The Loft di Chicago (lo studio dei Wilco, ndr.) l’album si presenta come un mix bilanciato tra killer rock e pop. Tematiche importanti, ma affrontate con la positività e l’irriverenza che  da sempre contraddistingue i Maxïmo Park. The Eyes Fashion li ha incontrati a Milano in una giornata più che estiva…

Come ci si sente a essere tornati?
Ci si sente bene! Sentiamo che il nuovo album suoni molto bene, nuovo. Non vediamo l’ora di portarlo in giro.
In che modo il vostro sound è cambiato nel corso degli anni?
Più che cambiato, credo si sia evoluto da album in album. Adesso ci sentiamo anche a di rischiare di più, provare cose nuove, sia a livello di arrangiamenti che con i testi. Troviamo più temi di cui parlare mentre invece, il primo album era più romantico e introverso. Ci rimane sempre la voglia di raccontare la magia che c’è nelle cose di tutti i giorni, anche se questo disco è prevalentemente politico. È una tematica importante per noi. L’ispirazione ci è arrivata dalla musica soul e funky.
Descrivi “Risk To Exsist” in tre parole
Funky. Politico. Pop.
Qual è il significato dietro “Risk To Exsist”?
Il mio pensiero è che la vita è fragile. Dovremmo godercela di più, rischiare.
Guardando il nuovo album, qual è la della quale sei più fiero?
Domanda difficile! Probabilmente “The Hero” perché abbiamo collaborato con Mimi Parker dei Low. Prima suonava completamente diversa, con il suo arrivo e, diversi demo dopo è diventata la traccia finale. È la mia preferita perché mi sembra che siamo stati abili nel creare l’atmosfera di “Rocco e i suoi fratelli”, il film del 1960 di Visconti. È stata quella pellicola a ispirarci.
Seguirà un tour a questo album? 
Ci puoi scommettere.
Qual è la città in cui hai più voglia di tornare a suonare?

Sono diverse. Probabilmente New York. Mi è sempre sembrato un posto esotico, lontano da casa. È sempre una gioia suonarci. In più, mio fratello si è appena trasferito là per lavoro quindi c’è anche un motivo in più.

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A CHAT WITH THE WHITE MILANO CO-FOUNDER

di Federico Leddawhite-835

Creare una realtà importante e significante per la moda di tutto il mondo non è da tutti. Lo sa bene Brenda Bellei, co-fondatrice del White, il salone collaterale alla fashion week milanese che di anno in anno diventa una manifestazione sempre più rilevante. Il White sceglie per ogni stagione i brand emergenti e non più interessanti e meritevoli, offrendogli la possibilità di mostrare la loro collezione all’interno dell’evento.

Sono stato invitato a visitare il White per vedere con i miei occhi la freschezza che la fiera sta  riuscendo a sviluppare grazie ai sui designer. Insieme a me c’era Brenda Bellei, che mi ha spiegato come si mette in piedi una manifestazione così di rilievo…

Quanto il White è diventato importante per Milano?
Spero tanto. Il salone porta a Milano più di 25mila operatori a edizione. Senza contare gli espositori, collaboratori, stampa etc… Credo che portiamo molto alla città infatti, siamo gli unici ad essere patrocinati dal comune.

Nel corso degli anni il White è diventata una potenza mondiale. In che modo si è sviluppato?
Avevo 28 anni, e insieme a Massimiliano Bizzi abbiamo pensato a creare questa realtà. Sembrava una follia giovanile, mai avremmo pensato arrivasse a questi livelli… Ne siamo molto contenti.

Per che cosa sta ”WHITE”?
Abbiamo voluto scegliere un nome che non fosse un nome fieristico. Essenziale. Un po’ Margiela (ride, ndr.)

Quai sono stati i punti di forza che vi hanno portato fin qui?
Senza dubbio la passione e la dedizione per quello che facciamo. Facciamo tanta ricerca, scouting. Questo è importante. Sin dal primo giorno abbiamo sempre cercato di dare tutti noi stessi.

Come avviene lo scouting?
Viaggiamo tantissimo, in tutto il mondo. Visitiamo le fashion week internazionali, da quelle più importanti, a quelle più piccole e sconosciute. Andiamo nei negozi, visitiamo le altre fiere. Abbiamo poi un bacino di richieste che cresce sempre a dismisura. Da scouting e richieste selezioniamo i brand più consoni e li invitiamo al salone.

Qual è la metrica di giudizio per selezionare i brand?
Abbiamo una commissione composta di giornalisti e buyer. Insieme cerchiamo di studiare il brand in tutte le sue sfaccettature come ad esempio, la sua distribuzione, la copertura della stampa, in quali negozi è presente etc. Se invece il brand è emergente, incontriamo lo stilista, guardiamo gli schizzi…Abbiamo un team di tutoring che ci aiutano a capire e aiutano lo stilista stesso, a emergere.

Qual è il futuro del White?
Renderlo un prodotto sempre più internazionale. Stiamo lavorando tantissimo all’estero, portando brand internazionali, abbiamo brand Cinesi, Belga, Georgiani. Ci piacerebbe renderlo sempre di più una finestra sul mondo.

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GRETA SCARANO – HER

di Federico LeddaCopertina Orizzontale

Eccoci, non siamo scomparsi. The Eyes Fashion esiste ancora.
La scelta di uscire con un ritardo di metà mese, è stata dettata dal fatto che in copertina ci trovate lei: Greta Scarano. Attrice di un talento disarmante, sta ricevendo sempre più consensi da parte del cinema italiano. Vincitrice di un nastro d’argento come miglior attrice non protagonista in Suburra, Scarano sta vivendo un periodo estremamente occupato. Da oltre un anno al cinema, prima con Suburra, poi con La Verità Sta In Cielo e adesso con Smetto Quando Voglio – Masterclass, abbiamo incontrato Greta in una giornata di pausa tra un progetto e l’altro. Estremamente simpatica e dolce (al cinema fa sempre ruoli forti, ndr.) ci ha raccontato com’è la sua vita e cosa si prova a essere sempre più richiesta…

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Hai sempre seguito, sin da giovanissima, la tua passione per la recitazione, che ti ha portato perfino a studiare in Alabama. Quali sono state le differenze maggiori che hai trovato, lavorando nel teatro italiano e quello americano?
Ho vissuto in Alabama all’età di 16 anni. Lì ho frequentato il teatro nell’ambito dell’high school, portando in scena due spettacoli. Posso quindi più che altro parlare della mia esperienza scolastica, che è stata intensa. La principale differenza con l’Italia è che il teatro e la recitazione sono materie scolastiche e come tali vengono trattate. Naturalmente sono materie molto amate perché gli studenti mettono in scena spettacoli che poi vengono proposti in concorsi statali, competendo con altre scuole.  È stimolante far parte di una realtà che mette l’arte, la recitazione e il teatro al centro della vita degli studenti. Sarebbe bello se potesse essere così anche in Italia: fornire una preparazione artistica agli studenti delle scuole dell’obbligo stimolandone la creatività e la sensibilità, permetterebbe di formare professionisti del nostro settore molto presto. Mi capita spesso di essere contattata da ragazzi che vorrebbero fare gli attori o i registi, ma non sanno da dove cominciare.

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Non tutti lo sanno, ma hai anche studiato batteria e percussioni. Quanto la musica influisce nella vita?
La musica cambia sempre tutto. Duramente l’adolescenza, la mia vita era fatta di cd e dvd. Li collezionavo. Mia madre mi diceva che un giorno o l’altro sarei andata in giro vestita di album perché non compravo altro. Recentemente ho lavorato con Stefano Mordini, abbiamo girato un film insieme. Stefano porta la musica sul set e chiede a tutti di lasciarsene ispirare, perché ogni scena ha una sua temperatura, un suo ritmo, proprio come le canzoni. E le scene prendono subito vita. Il set è coinvolto in questo nuovo processo creativo che si nutre dell’energia di tutti.
Che musica ascolti? Cosa c’è nelle tue playlist?
Mumford&Sons, First Aid Kit, M83, Janis Joplin, Fabrizio De André, Lady Gaga, The Black Eyed peas, Kanye West, Lucio Dalla e mille altri.foto-67
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La tua strada nel cinema è solo all’inizio, ma hai già interpretato importanti ruoli. Qual è il processo che ti porta dentro un personaggio? Quanta Greta c’è dentro i tuoi personaggi?
Prima leggo la sceneggiatura, cerco di capire che film è e che personaggi racconta. Cerco di capire gli archi emotivi dei personaggi, imparo le battute a memoria, le provo da sola. Poi chiedo al regista, mi confronto con tutti i reparti che mi aiutano nella creazione del personaggio. Lavoro quindi a stretto contatto con il costumista, il truccatore, il parrucchiere, cerco riferimenti, non faccio che pensare a come sarà il mio personaggio. Poi cerco di dimenticare tutto, arrivo sul set e lavoro sull’istinto, sulla ricerca di qualcosa a cui non avevo pensato prima, provo a farmi sorprendere dai miei colleghi attori, mi cibo di tutto quello che mi circonda e uso tutto quello che mi viene messo a disposizione. Di solito, più o meno, faccio così. C’è tanto di me nei personaggi che interpreto, sarebbe impossibile evitarlo.

Qual è il ruolo che hai interpretato alla quale sei più affezionata?
Sono affezionata a tutti i personaggi che ho interpretato, ma ad ognuno in modo diverso.

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Cosa pensi del cinema italiano? Quali sono i registi che apprezzi di più?
Vorrei vedere le sale piene di pubblico, vorrei vedere film ambiziosi e coraggiosi. Ripongo molta fiducia nelle nuove generazioni. Amo Garrone, Sorrentino e Mordini perché sono dei visionari. Amo Veronesi che adora i suoi personaggi e si dedica con passione agli attori che sceglie.

Avendo studiato tra gli Stati Uniti e l’Italia, quali sono le differenze maggiori che adesso, da professionista, noti tra il cinema italiano e quello a stelle e strisce?
Il cinema americano è un’industria che genera enormi ricavi. C’è uno star system che smuove le masse. Noi abbiamo vissuto di rendita per molti anni, poi abbiamo iniziato a deludere e oggi paghiamo il prezzo della sfiducia del pubblico nei confronti del cinema italiano. Ma c’è la voglia di riconquistarla. Io, da parte mia, non voglio mai deludere chi viene al cinema a vedere un film dove ho lavorato. Dobbiamo ricucire il rapporto con gli spettatori e dobbiamo ricominciare ad investire seriamente nell’industria cinematografica raddrizzando una serie di storture che la bloccano. Dobbiamo stimolare le nuove generazioni a nutrirsi di cinema.

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Sei nata e cresciuta a Roma, quali sono i tre posti che più ti piace frequentare quando sei là?

Adoro le ville di Roma, villa Pamphili su tutte. Amo mangiare in un buon ristorante e fare lunghe passeggiate notturne, Roma è più facile di sera. Amo andare a vedere un film al nuovo Sacher.
Su cosa stai lavorando in questo momento?
Ho appena di finito di girare un film per la TV diretto da Stefano Mordini su Emanuela Loi, la prima donna poliziotto uccisa dalla mafia. Emanuela faceva parte della scorta di Borsellino ed è morta nella strage di via d’Amelio. Uscirà su Canale 5 in autunno. Non vedo l’ora. A maggio dovrebbe uscire una serie che ho girato per Rai 3, ma non posso ancora parlarne.foto-39

KUKI DE SALVERTES – A LIFE IN FASHION

di Federico Ledda
KUKI DE SALVERTES - RAF SIMONS -
Kuki De Salvertes and Raf Simons

È il 25 gennaio e sono a Parigi in occasione della settimana dell’Haute Couture. Sono appena stato al Ritz per assistere ad una sfilata e adesso mi sto dirigendo verso la Joyce Gallery ai Jardin du Palais Royal. Sono da poco passate le 17 e su Parigi sta scendendo il sole. Vedere il Palais Royal al tramonto è qualcosa di speciale per un romantico come me.
Sto andando all’anteprima della mostra “La Vie Dans La Mode” dove intervisterò il suo autore Kuki De Salvertes. Kuki non è né un pittore, né un fotografo, né uno stilista né tanto meno, uno scultore. È un PR di moda, uno dei più grandi. In Francia rappresenta quelle facce autorevoli che cerchi tra la folla per capire se l’evento è andato bene.
La sua carriera inizia a 19 anni, quando conosce praticamente per sbaglio un giovane Franco Moschino che lo vuole subito nella sua squadra. In poco tempo diventa per il brand, il capo delle pubbliche relazioni in Francia. Da lì  la vita frenetica di Kuki è decollata: Dior, Comme des Garçons, non c’è stato un brand in Francia che tra gli anni 80 e i primi 2000 che non si sia affidato a lui. L’anteprima di una mostra? Sì. Nel corso di questi anni, sin dai sui inizi, De Salvertes ha avuto la passione di fotografare le persone che lo circondavano. Amici, colleghi; bastava una polaroid, una usa e getta ed era subito magia. La sua risposta quando gli chiedo da dove viene questa passione? “Chi non ama fotografare i suoi amici e poi riderci su?”. Certo. Solo che i suoi amici includono Raf Simons, Kate Moss e Suzy Menkes.

Isabella Blow by Kuki
Isabella Blow by Kuki

Cosa rappresenta questa mostra?
E’ una celebrazione dei miei 35 anni nel mondo della moda. Sono arrivato a Parigi nel 1980, avevo 17 anni. Dopo due anni iniziai a lavorare per Comme des Garcons. In tutti questi anni mi ha sempre colpito la gente che mi circondava. Ai miei occhi appare tutt’ora estremamente bella, interessante.

Quale di questi scatti ricordi più con piacere?
Dietro di te c’è n’è uno che feci a Isabella Blow. E’ stata la mia migliore amica per molti anni. Dal 1995 al 2002, per essere preciso. Abbiamo vissuto persino insieme a Parigi, mi manca molto.

Ne vedo anche una di Franco Moschino, come sei arrivato a lavorare per lui?
Dopo essermi trasferito a Parigi dalla Provenza, durante i miei studi e i primi approcci con le agenzie di comunicazione conobbi una delle mie muse. Nicole Ciano, nipote di Benito Mussolini che all’epoca era a capo di un ufficio stampa. Averla conosciuta rivoluzionò completamente la mia vita, le diede colore. Felicità. Nicole frequentava la high society di Parigi, e anche quella italiana. Una sera organizzò una cena e tra gli invitati c’era anche Franco, che mi presentò.  Dopo un anno e vari incontri iniziai a lavorare per Moschino, avevo 22 anni.

Andando avanti nella galleria, ne trovo una anche di Vivienne Westwood…
Dopo sette anni lasciai Moschino per lavorare infatti, per Vivienne Westwood. Nel 2002 invece aprì finalmente la mia agenda di comunicazione, TOTEM. E’ stato un periodo meraviglioso della mia vita, che sono fortunato a rivivere tutt’ora grazie a queste fotografie.

Se dovessi definire questa mostra con una parola quale useresti?
Vita.

Perché?
Perché oltre a essere frammenti della mia vita, è un termine perfetto per rappresentare il valore che hanno avuto questi anni per me. Sono stati vitali.

Kuki with Olivier Theyskens
Kuki with Olivier Theyskens
Veronique Branquinho and Suzy Menkes
Veronique Branquinho and Suzy Menkes

ALBERT WATSON – THE ICON

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Dalla foto storica ritraente Steve Jobs utilizzata perfino da Apple, al poster di Kill Bill, siamo tutti familiari con i lavori di Albert Watson. Fotografo scozzese che dalla fine degli anni 70 ha creato vere e proprie opere d’arte che hanno rivoluzionato il mondo della fotografia per sempre. Alfred Hitchcock, Queen Elizabeth, 2Pac, Jay Z, Kate Moss, David Bowie, sono solo alcuni dei personaggi con cui Watson ha collaborato nel corso degli anni. Quello che rende la sua fotografia così riconoscibile, è il tratto essenziale, semplice, con il quale ritrae tutti i suoi soggetti.
Siamo stati al Museo della Permanente dove Watson stava lavorando alla preparazione della preview di KAOS, la sua mostra che sarà presentata poi al Palais De Tokyo di Parigi. Estremo perfezionista, il fotografo ha personalmente curato ogni singolo dettaglio della mostra. Dalle musiche (alcune dalla serie Gomorra, ndr.) alla disposizione delle opere.

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Come mai decidere di fare una preview a Milano di una mostra che sarà invece a Parigi?
Sì, la mostra completa sarà a Parigi, ma tornerà poi a Milano e aprirà al pubblico. Adesso ci sono solo 40 opere ma al suo ritorno saranno 300.

In quale modo hai deciso le 300 stampe e le 40 per la preview?
Ho cominciato da una selezione di 1000 immagini. Organizzandole in gruppi sono riuscito a eliminarne 100 e poi altre 100. Da quelle 800 la scelta è stata dura ma con calma sono arrivato a 300. Una volta selezionate, per esserne certo ho controllato ancora quelle eliminate. Sceglierne poi 40 per la preview è stato estremamente istintivo

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Da dove deriva il titolo Kaos?
Rappresenta semplicemente la frenesia che ha avuto un periodo della mia vita. Mi trovavo alla Couture Week di Parigi e un momento dopo al Cairo per scattare i pezzi di Tutankhamon. In Scozia a fotografare paesaggi, e poi a Hollywood a lavorare al poster di Kill Bill. Quello che fotografavo era caotico. Era moda, erano diamanti, erano paesaggi. Poteva essere tutto. Ecco da dove viene il termine. Rappresenta la mia vita.

Cosa preferisci fotografare di solito?
Se lavoro per due settimane con delle modelle, sono contento se poi devo stare in studio a scattare still life. Mi permette di staccare la mente e di concentrarmi su oggetti inanimati. Di solito cerco di alternare ogni mio lavoro in modo da avere sempre lo stesso piacere per ogni progetto.

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Qual è stata la persona con cui hai lavorato, che più ti ha ispirato?
Ce ne sono state diverse. Mi è piaciuto molto lavorare con Jeff Koons. E’ intellettuale, sofisticato e divertente come un bambino. E’ davvero intelligente. Ogni volta che ho la possibilità di passare del tempo con lui, è sempre un’esperienza unica. Un’altra persona che mi è piaciuta particolarmente è stata 2Pac.

David Bowie?
Una persona estremamente premurosa e di un’intelligenza disarmante. Un grande attore. Era capace a interpretare qualsiasi personaggio davanti all’obiettivo. Ho imparato tanto da lui. Un’altra persona che mi ha colpito tanto è stata Marilyn Manson.

Come mai?
Prima di diventare cantante era un mimo. In realtà si chiama Brian, ha creato Marilyn Manson per sfuggire dal mondo reale. L’ha fatto in un modo estremo, fuori dagli schemi. Geniale.

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Che cambiamenti hai notato da quando hai iniziato a lavorare come fotografo?
Adesso è tutto molto più spontaneo. In tanti hanno una macchina fotografica e tutti hanno un telefono che scatta fotografie. Mi piace tantissimo l’iPhone. Ti permette di scattare in modo semplice e immediato. Inoltre credo abbia avvicinato molte più persone alla fotografia.

Possiamo quindi dire che la fotografia è diventata mainstream?
Credo che sia ovunque. Per creare una grande fotografia hai comunque bisogno di una reale macchina fotografica e soprattutto, di saperla utilizzare. Vedo tanti fotografi improvvisati ultimamente. Lo fanno sembrare facile come guardare la tv…

E’ cambiato il tuo modo di fotografare?
Sì, ma non nel modo in cui credi. Una macchina fotografica digitale o a pellicola, non fa differenza per me. La digitale è come se fosse un auto sportiva mentre quella a pellicola è come la Rolls Royce. Sono diverse. La cosa interessante secondo me, è come sono cambiati i computer. Adesso puoi manipolare la realtà come un pittore può controllare l’olio su una tela. E’ davvero affascinante.

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LINDSEY PELAS: AMERICA’S SWEETHEART

di Federico Ledda10599718_744598118939031_7436881501259473847_n

Si chiama Lindsey Pelas e con il suo corpo mozzafiato (tutto naturale, ci tiene a precisare, ndr.) sta facendo innamorare tutto il mondo del web. Cresciuta in una fattoria a Ruston, nel Louisiana, Lindsey ha sin da sempre il sogno di fare carriera e di trasferirsi a Los Angeles. Durante il liceo crea una bucket list con i punti: –Trasferirsi a Los Angeles, –Diventare Playmate. Finita la scuola infatti, armata di coraggio, riesce a trasferirsi a LA. Appena arrivata, quasi per caso, viene invitata a una festa nella Playboy Mansion, dove incontra il campione di poker-Instagram Star Dan Bilzerian che rimane estasiato dalla sua bellezza e decide di promuoverla come influencer. Da lì a poco ottiene una parte al fianco di Bruce Willis in Extraction e, indovinate un po’? A maggio 2014 riesce a diventare la covergirl di Playboy. Grazie a Instagram e ai Social Network in generale, Lindsey è sempre più in ascesa e sarà anche la star della seconda stagione di Famously Single, reality molto seguito negli Stati Uniti.

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 Com’è stato crescere in Louisiana per spostarsi poi in una realtà più grande, come quella di Los Angeles?
Crescere a Ruston è stata un’esperienza unica. Arrivare a Los Angeles con la semplicità che mi è stata insegnata dai miei genitori nel sud, mi ha veramente fatto apprezzare le piccole cose. Adoro vivere in una città così grande dove tutti pensano cose diverse. E’ un’ispirazione continua.

Puoi descrivere Los Angeles a qualcuno che non ci è mai stato? E’ davvero il posto dove i sogni si avverano?
LA è la città dei sognatori. Il clima è praticamente perfetto, il panorama è mozzafiato. Sono le persone che ci vivono però, a renderla così unica. Tutti hanno una storia diversa. Quello che li accomuna è la passione che mettono nelle cose che fanno. E’ bellissimo.

Sei mai stata in Italia?
Purtroppo no! Ma non vedo l’ora di venirci. Tutti dicono che è pazzesca.

Ti definisci un influencer?  
Credo che sia inevitabile, sì.
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Fai parte del cast della seconda stagione di Famously Single su E!. Come è andata?
Mi frequentavo con un ragazzo inglese. Non era una cosa stabile. Lui era nel cast della prima stagione, ed è stato contattato anche per la seconda. La produzione sapeva del nostro rapporto, che ormai era finito, e ha voluto invitare anche me. Dopo un po’ di tentennamenti, ho deciso di buttarmi. E’ stato surreale parlare dei nostri sentimenti davanti a così tante telecamere.

In che modo credi che i Social Media abbaino cambiato le nostre vite? Quanto invece, hanno cambiato la tua?
La mia l’hanno cambiata completamente! Grazie ai Social ho avuto e sto avendo tutt’ora enormi opportunità che di sicuro non mi sarebbero mai arrivate. Dalla mia vita amorosa al mio lavoro da modella, passando a quello in televisione, ci sono stati cambiamenti abissali. Non nego che ci sono lati negativi, come in ogni cosa, ovviamente. I Social sono una finestra sul mondo e se siamo abili ad usarli, possono davvero cambiarci la vita.

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Com’è una tua giornata tipo?
Non esiste! Ogni giorno è diverso per me. Può essere che rimanga dodici ore nel deserto per un servizio fotografico, che giri un video musicale o che faccia riunioni tutto il giorno e che la sera vada a un evento. I’m all over the place. 

So che sei molto coinvolta in progetti di beneficienza…
Negli ultimi anni, a Natale ho prestato volontariato aiutando i bambini meno fortunati. L’organizzazione che preferisco è Babes In Tonyland che si occupa tutto l’anno di raccogliere soldi per donare durante le feste natalizie giochi a bambini meno fortunati. Babes In Tonyland ha anche un’altra divisione, che si occupa di finanziare organizzazioni più piccole specializzate nel soccorso di animali indifesi.

CHEF RUBIO – FISH CHIP

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Solitamente, nelle introduzioni delle mie interviste, cerco sempre brevemente di spiegare chi è l’intervistato. Ma veramente, chi non conosce Chef Rubio? Al secolo Gabriele Rubini, guadagna popolarità grazie al programma sullo street food Unti e Bisunti. Da lì il boom, che lo fa approdare di recente su Canale 9 con l’irriverente programma Il Ricco e Il Povero. Impegnato anche in diverse attività benefiche, quello che emerge conoscendolo di persona è il suo cuore grande. Grande quanto la sua passione per il Rugby che lo accompagna da tutta la vita. Gabriele è anche il commentatore a bordo campo durante i match del torneo Sei Nazioni, in diretta questo mese su Canale NOVE. Dove potevamo portarlo quindi, se non a fare due lanci?

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Chi è Chef Rubio? Dove finisce il personaggio e, dove inizia Gabriele?
Chef Rubio è Gabriele. Si alternano. Quando c’è bisogno di sfacciataggine esce Rubio, quando invece deve emergere discrezione, ci pensa Gabriele. Adesso è diventata però una cosa abbastanza ibrida, non c’è praticamente più distinzione tra i due. Prima c’era una necessità di racconto che con la crescita è diventata appunto, meno importante.

Se dovessi descriverti con una parola?
Ossimoro. Sono fatto di contrasti.

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La tua passione principale quindi? Cucina o Rugby?
La cucina è una necessità vitale. Il Rugby è uno sport che mi rimarrà dentro tutta la vita.

Ti ha segnato?
Più che segnato mi ha formato.

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Sei l’inviato a bordo campo del Sei Nazioni. E’ la prima volta che ti viene affidato un simile compito?
E’ la prima volta che mi dedico totalmente a questo. E’ una bella esperienza.

Come la stai affrontando?
Di sicuro non con il dolcevita! (Siamo sul set e siamo pronti a scattare, ndr.) L’affronto tranquillamente, conoscendo buona parte dei giocatori. Anzi, con alcuni di loro c’è un grande rapporto di amicizia da anni. Quando sono a bordo campo, cerco di fare emergere il loro lato umano, non tanto quello da giocatori.

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Ami viaggiare. Il tuo ultimo programma Il Ricco e il Povero è infatti, basato anche su questo. Quanto cambia la mentalità viaggiare?
Credo si nasca con l’attitudine al viaggio. Di sicuro crescendo la si affina. Sin da ragazzino ho avuto la passione di andare in giro, di scoprire posti, cultura e persone diverse da me.

Qual è la meta dove andare almeno una volta nella vita?
Nuova Zelanda, Islanda o Azzorre. Sono le migliori realtà paesaggistiche che abbia mai visto. Sicuramente la Nuova Zelanda è più completa ed è quella dove ho più ricordi. L’Islanda e le Azzorre hanno dei paesaggi che sono quasi fantascientifici dalla bellezza. E’ impossibile sceglierne solo una. Da vedere tutte e tre. Assolutamente.

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Il posto dove non andare mai?
Cuba. Ci sono stato di recente. E’ un discorso molto complesso che non si riuscirebbe a riassumere in una risposta. E’ un’isola in cui qualcuno ha giocato con il popolo e lo ha reso schiavo. E lo è tutt’ora. Non incoraggerei un sistema del genere andandoci a fare il turista.

Quali sono i tuoi gusti musicali?
Vengo dal Metal, cresco in parallelo con Punk e Grunge, interessandomi poi all’hip hop e al mondo rap. Ho sempre sentito tutto. Avendo adesso amicizie che cantano in gruppi hip hop, rock, indie etc. mi viene spontaneo ascoltare ancora di più ogni genere musicale. Non mi precludo nulla. C’è tanta bella roba, ma c’è pure tanta ‘monnezza.

Dopo il torneo cosa farai?
Sicuramente tanto lavoro. Ho tanti progetti da continuare e da terminare. Non sarà un momento di riposo. Riposare è difficile quando il tuo lavoro è la tua passione.

 

 

Il pop dei Baustelle

di Federico Ledda_K1A8540

Ho sempre ammirato i cantautori italiani che, a mio parere, sono, e soprattutto sono stati,  un vanto di questo Paese. Ci sono stati sicuramente tempi migliori (vogliamo parlare dei ’70?) per questo genere  di musica, eppure qualche raro esempio emerge ancora, e proprio per questo è particolarmente interessante. Uno fra tutti? I Baustelle, il loro nuovo disco: L’amore e la violenza, vira tra pure ispirazioni pop alla Viola Valentino a veri e propri racconti di guerra. L’ album, della band di Montepulciano, è un disco cinico, malinconico, sincero e musicalmente maturo.  Arriva dopo una pausa, durante la quale Francesco (Bianconi – voce, chitarra e tastiere,  ndr.) ha pubblicato la sua ultima opera letteraria La Resurrezione Della Carne , mentre Rachele (Bastreghi – voce, tastiere e percussioni ,ndr.) ha dato vita al suo primo progetto da solista intitolato Marie.  Le tracce must listen sono: Basso e batteria, L’era dell’acquario, Il Vangelo di Giovanni.

Come nasce il titolo dell’album? 
Generalmente scriviamo prima la musica, passando poi a scrivere i testi. Da un paio di dischi a questa parte io ho invece puntualmente il blocco dello scrittore. Mi trovo davanti queste ”caselle” da riempire e penso di avere già detto tutto nei dischi precedenti. Quindi mi blocco. Uno stratagemma per evitare questo, è, banalmente, darsi dei temi sulla quale lavorare. Per ricercare i temi del nuovo disco, ho dato un’occhiata al mondo, e l’ho trovato in guerra. Quindi, parte dall’idea di guerra. Una guerra diversa da quella a cui siamo abituati. Che entra nell’intimo. L’idea è quindi stata quella di pensare a delle canzoni d’amore in un ipotetico tempo di guerra. Ecco quindi il titolo L’amore e la violenza.

Quali sono state le ispirazioni principali durante la lavorazione?
L’ispirazione è arrivata da Jaques Prévert e da altri poeti autori di liriche d’amore in un contesto di guerra.

In che modo avete lavorato sulle produzioni? C’è un grande distacco dal disco precedente. Come è andata?
C’è un utilizzo, oserei dire dogmatico, di strumenti di una volta. Come diceva Umberto Eco, a volte la storia cammina all’indietro. Ci sono delle tecnologie che sono state inventate nel 1942, che risultano all’avanguardia ancora oggi. Noi crediamo che una canzone sia fatta dalla melodia, dagli accordi, dall’armonia ma anche dal suono e dal timbro con cui viene suonata. Che cambia totalmente in base allo strumento con la quale la suoni. Durante la lavorazione abbiamo infatti giocato tanto con i sintetizzatori analogici, inventati decine di anni fa ed estremamente complessi nell’utilizzo. Che non sono però tutt’ora comparabili alla loro versione tecnologica. Due suoni estremamente diversi.

Il singolo di lancio dell’album, rende omaggio a un personaggio pop iconico. Che cosa simboleggia nella canzone, il personaggio di Amanda Lear?
La canzone è cervellotica. Volendo, Amanda Lear non c’entra niente. Parla di una storia d’amore tra un uomo e una donna. Stanno insieme. Si amano. Lei però continua a ripetersi che niente dura per sempre. Preferisce bruciare subito, piuttosto che durare in eterno. Lui prende alla lettera questa sua filosofia spicciola, e la tradisce con la prima che passa, in sostanza. Questo ”plot” che ti ho raccontato, nella canzone viene raccontato con un doppio flashback, comincia con lui che si rivolge a questo amore. Poi, ti facciamo sapere nel pre ritornello dove si trova lei in questo momento. Sembra quindi che sia lei la cattiva, in realtà, nel secondo flashback vediamo che è lui l’infedele. Amanda Lear c’entra perché nel mio racconto, lei fa sempre la similitudine del LP: ”dobbiamo essere come un LP di Amanda Lear, il lato A e il lato B.

Partirete anche in tour che, per la seconda volta sarà nei teatri. Come mai?
Non è stata una scelta facile. Mentre con Fantasma (l’album precedente, ndr.) è stata una scelta naturale, essendo il disco suonato con un’orchestra. Questo no. Il teatro però è una dimensione che ci piace. Stiamo preparando un live che inizia presto, e finisce presto, in modo da catturare il pubblico. Speriamo che piaccia a tutti.

COVER ALBUM

 

 

MAKE THE EYES FASHION GREAT AGAIN!

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È tempo di cambiare musica.
E’ il proposito principale di The Eyes Fashion per il nuovo anno. Siamo cresciuti. Sono cresciute le persone che credono in questo progetto, e sono cresciuti anche i lettori. Per numero ed età.

La scelta di iniziare il 2017 senza soggetti in copertina, è una decisione coraggiosa, ma voluta con determinazione. Una scelta di evoluzione.

Lo strillo “Make The Eyes Fashion great again“, fa infatti il verso al più noto slogan di campagna elettorale utilizzato dal, purtroppo, nuovo presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump. Gli ultimi mesi dello scorso anno non sono stati facili per il mondo intero che, oltre alla Trump-presidenza, ha visto spegnersi tante icone musicali che da sempre hanno influenzato l’espressione artistica del magazine e, più nel profondo,  di tutti .

Serviva quindi una nuova rinascita: a new beginning tanto per stare in tema.

Per rendere The Eyes Fashion great again, ci impegneremo tanto, e tanti saranno i cambiamenti.

Aspettatevi tutto. Non aspettatevi niente.

Federico Ledda

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Hello Sem&Stènn!

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Eleganza, fashion e buona musica. E’ questo il mix perfetto creato dal duo che sta facendo impazzire e ballare tutta la nightlife milanese e non solo. Con la loro musica Sem&Stènn stanno riuscendo a trasmettere un nuovo messaggio di unità e di parità farcito con musica prodotta in modo impeccabile. Gli abbiamo conosciuti fuori dal concerto di Dua Lipa e ci hanno catturato con la loro musica!

Come nascono Sem&Stènn?
Nasciamo nel lontano 2006, conoscendoci in un blog di musica, quando praticamente uscivamo dalla scuola materna. Nel 2011 ci incontriamo (finalmente) fisicamente a Milano, dove sboccia l’amore e ci trasferiamo per studiare e lavorare. Da li a poco è emersa timidamente la voglia di fare musica insieme. Ci iscriviamo al corso di Electronic Music Production, in NABA. In occasione di una festa dell’Accademia ci troviamo per la prima volta una console davanti per fare un djset di fronte a un centinaio di persone. Non avevamo mai pensato all’idea di fare i dj, eravamo li per imparare a produrre. Pur non conoscendo il 90% dei tasti di quella macchina è andata discretamente bene e ci siamo divertiti molto. Pensavamo che, finché non avessimo pronte delle nostre produzioni, potesse essere un modo carino per condividere la nostra musica. Da li si sono presentate diverse occasioni. Poco meno di due anni fa abbiamo preso in mano la nostra tastiera midi e avevamo capito che era il momento giusto di fare la nostra musica.

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Quanto la cultura pop influenza la vostra musica?

Siamo noi stessi fatti di sostanza pop. Essere pop spesso è una pessima nomea, come se si fosse cheap, banali, o meno “arte” . Molti artisti si distaccano da questo attributo, quasi inorriditi. A noi non dà fastidio, anzi. In realtà essere pop, e farlo bene, è difficile, richiede capacità di rinnovarsi, di trovare ispirazioni nuove ogni volta, di soddisfare un pubblico molto più ampio. Il pop non è tutto per noi, c’è anche dell’altro, in realtà c’è un po’ di tutto. Nel momento di produzione ci si muove d’istinto e il risultato finale non sai bene da dove venga…ma sai che l’hai fatto tu.

Il vostro duo nasce a Milano. Altre città che vi ispirano?
Abbiamo avuto la possibilità di viaggiare poco, a dire il vero. Ma sicuramente, ragionando per immaginari, direi New York – se ci fosse una macchina del tempo che ci riportasse a fine degli anni ’70, con il boom della DiscoMusic, la nascita del Vogueing e della Black Music, ancora meglio – e Parigi, per lo scenario di musica elettronica contemporaneo che ammiriamo molto.

9p6a6179Che musica influenza maggiormente il vostro sound?
Il nostro album celebra la nostra identità e come tale ha qualche rimando agli anni ’80, ma anche alla scena dance dei primi anni ’90 e a quella elettronica del nuovo millennio. E’ di grande ispirazione il Synth pop degli anni ’80, la musica elettronica francese e quella nord-europea di artisti come i Pet Shop Boys, Depeche Mode, Basement Jaxx, Robyn, Sebastian, MGMT, Years & Years, Daft punk e molti altri.

Partirà un tour del vostro progetto?
Siamo in fase di programmazione. Molto presto annunceremo le prime date. Nel frattempo, usciranno i remix di Baby Run e Jewels&Socks. E’ stato bello collaborare con altri produttori e sentire i nostri brani mescolarsi con nuovi sound.

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Photographer: Jusher Avain

Styling & Make Up: Pablo Garcia, Ignacio Muñoz

 

ROSE VILLAIN IN ITALIAN PSYCHO

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Di chi è la voce ammaliante che canta insieme a Salmo nel suo ultimo singolo Don Medellín? Chi sentendo la canzone, o magari, vedendo il video non si è posto questa domanda almeno una volta? Il video, che su YouTube ha raggiunto oltre tre milioni di visualizzazioni in sole due settimane,  vanta la collaborazione di un volto fresco, nuovo. Il suo nome è Rose Villain, è del 1989, di Milano e vive a New York. Abile nello scrivere si sta facendo conoscere per l’originalità dei suoi testi che insieme a degli arrangiamenti cosmici la rendono di rilevanza internazionale.  Per adesso ha rilasciato due canzoni sul suo canale VEVO: ”Get The Fuck Out Of My Pool” e ”Gheisha”. The Eyes Fashion l’ha incontrata per capire meglio chi è e qual è il suo background. Per farlo però le abbiamo fatto interpretare una nuova versione di Patrick Bateman, protagonista di American Psycho, suo film preferito.

1Si sa ancora poco su chi è Rose Villain. Racconta chi sei, Rose Villain è il tuo vero nome?
Il mio vero nome è Rosa ma fin da piccola mi chiamano tutti Rose, colpa di Titanic. Villain invece viene dal nome di una cover band punk che avevo a Los Angeles, The Villains e, alla Ramones, avevo assegnato a tutti il cognome.

Sei di Milano ma vivi a New York, come ci sei arrivata?
Appena dopo il liceo mi sono iscritta al conservatorio di musica di LA. Poi, dopo qualche anno, ho fatto studi di teatro e musical a Broadway e mi sono innamorata di NY, dove vivo da sette anni.

2Quali sono le differenze più grandi tra l’Italia e l’America? So che è sbagliato chiedertelo, ma dove ti senti a casa?
Mi sento a casa a NYC. Sono cresciuta a Milano ma le vere esperienze le ho fatte lì: casa da sola, lavoro, musica, amore… l’italia è un gioiellino tra cibo, natura e città, davvero unica. New York, che è molto diversa dal resto dell’America, è un centro pulsante di ambizione, energia e passione. In Italia manca un po’ la morsa ma in America manca un po’ la cultura.

Come è iniziata la tua carriera? Che tipo di collaborazione c’è con Machete?
Sono un paio d’anni che scrivo pezzi con producer americani ma, finché non ho incontrato a Manhattan l’italianissimo Sixpm, il mio producer, non ho trovato il mio suono. Lui ha veramente capito chi sono, cosa voglio trasmettere e ha trasformato le mie idee in musica. Infatti mi ci sono fidanzata. Tramite lui ho iniziato a registrare alcuni pezzi negli studi Machete ed è nata una bella sinergia: in Italia mi rappresentano loro.

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Ti sei fatta conoscere dal mondo rilasciando “Get the fuck out of my pool”, “Geisha”, e ora la collaborazione “Don Medellín” con Salmo. Qual è il processo di nascita di una tua canzone?
Inizio sempre da un concept, un titolo che spesso è suscitato da sogni, immaginari, film e libri. Mi piacciono il pulp e l’horror, il kitsch e l’eleganza, e ogni pezzo deve essere bilanciato alla perfezione come una ricetta.

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Qual è la risposta che sta dando il pubblico alla tua musica? Da dove arriva il maggiore supporto?
Beh, devo dire che ho l’approvazione di molti. Sono molto felice che si sia capito che voglio fare qualcosa di grande ed eventualmente portare in italia una ventata di internazionalità. Su Spotify i maggiori ascolti arrivano dagli USA, da Hong Kong e dal Brasile.

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Hai di recente dichiarato di avere firmato un contratto con Universal Europa, what’s next?
Eh, adesso inizio a farmela sotto. Lavoreremo un paio di singoli, probabilmente GTFOOMP per primo e verrà spinto in tutta Europa. Germania, Francia, UK si alleano per la terza guerra “musicale”.

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Cosa significa per te essere la covergirl del mese di dicembre di The Eyes Fashion?
È la mia prima copertina, quindi The Eyes Fashion rimarrà nel mio cuore e se faccio il botto vero rimarrà nella storia!

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THE BEATMAKERS – MERK & KREMONT

di Federico Ledda

merk-kremont-4Avete presente quando sentite quella canzone che non conoscete ma con il beat che vi fa impazzire? Magari alla radio, o in televisione. La sentite una, due, tre volte e allora sfiniti aprite Shazam dal vostro telefono e cercate il titolo perché voi dovete DISPERATAMENTE sapere di chi è e come si intitola? Ecco. Probabilmente non lo sapete, ma magari dietro a quel beat che vi piace tanto ci sono loro: Merk & Kremont.
E’ loro il merito del successo estivo ”Andiamo a Comandare” che grazie a quel beat dal suono crudo ha reso Fabio Rovazzi il Re dell’estate. E’ anche merito loro se all’olimpo della night life Italiana regna indiscusso Il Pagante.
I ragazzi, non sono però solo produttori ma anche un duo di affermati deejay che per i fan della musica EDM (Electronic Dance Music) sono dei veri e propri idoli, degni di riempire qualsiasi dancfloor si trovino davanti. Riusciranno a riempire anche quello dei Magazzini Generali il 4 novembre per il party di Beck’s?

Come ci si sente a essere i beatmaker più richiesti d’Italia? 
Ci si sente contenti! Sembra scontato ma essere richiesti per quello che ami fare è sicuramente una cosa che ti rende felice ma non è poi così automatica. Ci piace ed è una soddisfazione anche se noi siamo consapevoli che la nostra priorità è essere Merk & Kremont, nel senso produrre per noi stessi e per il nostro progetto, ma comunque in questo momento vogliamo provare-continuare a produrre anche per altri soprattutto perché ambiamo a qualche artista internazionale.

Siete stati tutta l’estate sulla cresta dell’onda per la produzione di “Andiamo a Comandare“. Come è nato il progetto?
Il progetto “Andiamo a Comandare” è nato abbastanza per scherzo anche se è sempre stato curato nei minimi dettagli, nel senso che anche quando ci mettiamo per gioco buttare giù delle basi totalmente fuori dal nostro mondo, applichiamo comunque lo stesso metodo ed impegno impiegato per cose più “serie”. Comunque Fabio all’inizio ci ha fatto il video di “Get Get Down”, video che è poi andato benissimo ed ha raggiunto più di 13/14 milioni di visualizzazioni così noi in cambio gli abbiamo fatto la base che poi è diventata la hit che tutti conoscete, ma in sostanza è stato tutto uno scambio di favori in virtù dell’amicizia che c’è tra di noi.

Vi abbiamo visto mesi fa sul palco di Beck’s per un set gratuito a Milano. Che cosa vi unisce al marchio? 
Quella sera è nata una festa tra amici, come se andare a vedere un dj-set insieme o andare a bere una Beck’s al bar con gli amici avesse lo stesso sapore, che poi è quello che dovrebbe essere, ovvero unire delle persone che vanno a divertirsi una sera insieme.

Com’è nata la collaborazione per “Give Me Some” insieme a Fedde Le Grand? 
La collaborazione con Fedde Le Grand è nata in realtà all’inizio della nostra carriera nel senso che sin da subito c’è stato un grande feeling e approvazione da parte di Fedde nei nostri confronti, forse perché gli piaceva la nostra selezione musicale, il modo di produrre e la costruzione dei set durante gli show, infatti è stato uno dei primi a supportare e suonare una delle nostre prime canzoni, “Tundra”, all’Ultra di Miami. Qualche anno dopo ci siamo detti “perché non inviargli un idea e chiedergli di terminarla insieme?” ci abbiamo provato e alla fine è andata bene.

Un aggettivo in comune che avete con Beck’s? 
Abbiamo iniziato quest’avventura con Beck’s quando lo slogan era “Cheers to Indipendence” e quindi forse è l’essere “indipendenti”, che in un mondo sempre più globale e standardizzato non è facile. Bisogna essere presenti e attivi globalmente ma restando comunque “indipendenti”, e questo è quello che cerchiamo di fare anche con la nostra musica.

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ARTIST TO KNOW: YOMBE

di Federico Ledda

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Dal sound accattivante, energico e internazionale, è facile innamorarsi del degli YOMBE. E’ anche facile capire perché Beck’s li ha voluti insieme ai Merk & Kremont come headliner della prima tappa del Beck’s on tour che sarà il 4 novembre ai Magazzini Generali di Milano.
Il duo, che si è formato nel 2015, grazie al loro EP di lancio può già vantare un iconico sound che li contraddistingue da molti, forse da tutti. Non c’è da stupirsi infatti che Carosello Records li abbia subito firmati come loro artisti. Il talento è dalla loro parte, ma vedendo il video del loro primo singolo SDIMS, lo è anche lo stile. Connubio perfetto per essere intervistati da The Eyes Fashion!

Chi sono gli Yombe? Come si formano? 
Cyen ed Alfredo si sono incontrati nei Fitness Forever, la band con cui hanno iniziato a collaborare musicalmente nel 2013. Dopo un anno di tour e collaborazioni con Erlend Oye (Kings Of Convenience) si trasferiscono a Milano dove vivono per un anno e danno luce a Yombe. Proprio a Milano una mostra sull’arte africana ci ha suggerito il nome. Una statua d’ebano, raffigurazione della maternità nell’iconografia religiosa, reca la didascalia “Yombe figure”. L’esotismo non è solo un richiamo estetico alla cultura africana ma è il leitmotiv dell’intero progetto.

Come descrivereste il vostro sound?
Una giraffa con le Nike.

Avete pubblicato un EP…What’s next? 
Scriviamo tanto materiale nuovo e contestualmente ne cestiniamo l’80%. Con molte probabilità del restante 20% faremo un altro EP.
Ci piace procedere a piccoli passi e al momento l’“extended play” è un formato più congeniale al nostro essere sintetici. Poi stiamo girando tanto. Finora abbiamo fatto circa 40 concerti in tutta la penisola e stiamo pianificando mini-tour all’estero.

Come siete entrati in contatto con Beck’s? 
E’ successo grazie a Carosello Records, la nostra etichetta. Hanno sottoposto a Beck’s il nostro progetto musicale ed è stato accolto con grande entusiasmo. Siamo felici di aver preso parte a questa serie di eventi che mettono in connessione musicisti, fotografi e videomakers creando sinergia.

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THEGIORNALISTI – FUGA ALL’ALCATRAZ

di Giorgio Zampollo (from YMW.com)

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Malpensa Terminal 2, sto andando a Londra e il mio aereo è in ritardo, per fortuna ho il mio portatile a portata di mano e posso ripensare e riascoltare quello che ci siamo detti io e Tommaso  dei Thegiornalisti qualche giorno fa. Il gruppo mi piace molto e il nuovo album “Completamente Sold Out” è un disco prodotto con metodo e che non ha una canzone fuori posto. Ogni canzone è al centro del progetto, c’è un’unità compositiva e di concetto che lo rendono veramente credibile.

Sapete cosa funziona dei Thegiornalisti? La capacità di superare gli stereotipi, la totale accettazione della parola “Pop” e la semplicità con cui rendono fruibili le loro canzoni.

L’album è un concentrato di idee, espresse volutamente nel modo più diretto e semplice possibile, Tommaso in questo album si spoglia di tutte le metafore, non usa inutili parole che aiutino ad esprimere un concetto; usa solo le più dirette, quelle strettamente necessarie. Il disco sarà seguito da un Tour che toccherà le principali città italiane: il 17 Novembre Milano all’Alcatraz, data che si preannuncia piena di emozioni dato l’amore che i milanesi mostrano verso il gruppo romano, e continuerà a Torino, Bologna, Firenze, Pozzuoli e Roma.

La mia introduzione è un’apertura per avvicinarmi al format di The Eyes Fashion, in questo caso sono ospite e cerco di trasportare e rendere accessibile la passione che mettiamo su YMW in ogni intervista.

Le collaborazioni Young Music Writers e The Eyes Fashion non iniziano in questa sede e non finiranno qui, per cui, senza perderci in troppi proclami auto celebrativi incominciamo con le domande e con le risposte

 

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Il disco è bello, è centrato ed ha una sua forma sia estetica che contenutistica che reputo forte
Grazie, partiamo bene, mi fa veramente piacere.

Vorrei parlare dei momenti che hanno caratterizzato il disco, delle sensazioni che ti hanno accompagnato durante la creazione di questi brani: La prima caratteristica che mi viene in mente è che il disco è notturno, solare nei contenuti ma notturno nella stesura, arrivi a casa e cosa racconti?
Il disco è molto notturno hai ragione, ci sono momenti in cui mi emoziono molto, sono un sentimentale, mi capita di piangere anche al cinema per una commedia, ho la lacrima facile. Avendo la valvola un po’ spanata delle sensazioni spesso godo molto da un lato ma dall’altro soffro, soffro fisicamente molto. Questa cosa cerco di tradurla in canzoni, ma parte tutto da una gioia incontrollata.

Ti parte dalla pancia? 
In realtà è un brivido di tutto il corpo, dalle gambe alla pancia. Sono sensazioni naturali che vengono scritte.

 

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È possibile che questo essere così spontanei nelle canzoni intercetti delle persone che si rivedono molto in quello che fai, dall’andare in giro di notte al vedere il mondo in un’altra prospettiva. La notte, scusami l’ossimoro, ti illumina le risposte?
Certo, è così in più il discorso è legato alle persone: ci sono delle persone che hanno un potere su di me incredibile, passo dallo stare male a non avere nessun problema, mi passa tutto, tutto. Nessuna ansia, nessun mal di testa, mi viene voglia di uscire e di andare a scoprire qualcosa.

Vasco (Rossi) lo sento tanto nel disco, mi sbaglio? Correggimi se sbaglio, la batteria di “Guarda dove vai” in Disperato, c’è altro? 
Questo ti dico la verità non lo so, però Vasco c’è senza dubbio, abbiamo messo la tromba di Giocala, la citazione è completa, è letterale proprio.

 

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Il rapporto con ragazzi di altre regioni e dagli stili di vita differenti ti aiuta? Ti “vedo” molto romano come appartenenza artistica. Ti senti parte di un gruppo di artisti provenienti dalla tua città?
Non lo so, la magia si crea quando incontro persone che hanno abitudini diverse dalla mia. Con le persone romane ho meno possibilità di creare qualcosa di magico attraverso dei dialoghi, siamo molto “settati”; invece quando sono a Milano loro sono attratti da me e dal mio accento, e io lo stesso, si crea un vortice di energia. È un momento veramente bello.

La scrittura ti aiuta a mettere giù queste sensazioni?
La scrittura è l’unica cosa che conta in questo senso.

 

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Con Matteo (“C-loop Cantaluppi” ndr.) che rapporto avete? È un rapporto artista produttore o c’è qualcosa di più?
Con Matteo abbiamo un rapporto che purtroppo sta andando oltre l’artistico, e questo non è sempre un bene, ci siamo trovati talmente bene e ci emozioniamo troppo insieme, non lo vedo come una figura distaccata. Abbiamo una stima reciproca ed un feeling incredibile.

Dal punto di vista artistico avete delegato molto a lui?
Abbiamo lavorato di squadra, lui io e Marco il chitarrista, abbiamo lavorato molto.

La sintesi è forse uno dei punti cardini di tutto quello che hai scritto in ”Completamente Sold Out”. Non è così?
È così, una delle mie canzoni preferite proprio a livello di testi è “Fatto di Te” perché è proprio questo. “Sto bene solo quando faccio sport, sto bene solo quando è sabato, sto bene solo quando arrivi tu, sto male solo quando te ne vai tu“, è Prima Elementare ma è giornalismo puro. La prosa più diretta, nessuna secondaria. Magari non potrò fare tutti i dischi così anche perché davvero rischi di distruggerti, ma per scrivere questo disco ho cercato di spingermi oltre anche con le sensazioni. ”Fuoricampo” (il disco precedente ndr.) era più armonioso, meno dionisiaco. Se fuoricampo è apollineo, il nuovo è dionisiaco.

Grazie Tommaso.
Grazie a te. Grazie di non avermi chiesto di spiegarti le canzoni, se te le spiego poi la gente non ci può più volare.

 

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